lunedì 17 ottobre 2011

Margottina



Chissà: forse lo sconvolgimento emotivo di questi giorni è in parte legato al ricordo di Margot.

Oggi è un anno esatto che se n’è andata.

Forse sembrerà eccessivo, ma il dolore che abbiamo provato è stato e continua a essere terribile, indescrivibile e incomprensibile per chi non c’è passato. E lo dico proprio io che, fino a pochi giorni prima di adottarla, prendevo in giro chi trattava il proprio animale – cane o gatto che fosse – come una persona, raccontando minuziosamente i particolari della sua giornata (quella di Fido o Fufi) quasi fosse un neonato.

Eppure poi quando ho visto la sua foto non c’ho capito più niente: uno scricciolino grigio e nero arruffato, solo occhi, alta appena un dito. E lo stesso è successo quando l’ha vista Lui, che si è improvvisato un perfetto “papà-gatto” capace di preparare ogni due ore siringhine di latte, uovo e miele oltre alla borsa dell’acqua calda per permetterle di tentare di sopravvivere.

E lei ce l’ha fatta.

Contro ogni previsione quello sgorbietto ha tirato fuori la grinta e ha deciso che qui, tutto sommato, non si stava male, che c’era qualcuno che teneva a lei, abbandonata (forse dimenticata dalla mamma) in mezzo alla strada. Così, sin da subito, è stata la bambina che desideravamo e chissà se avremmo mai avuto: si comportava un po’ da cane (riportando i suoi giochini quando glieli tiravamo), un po’ da persona, come quando si preparava alla notte portando i suoi pelouche sul lettone, o quando si piazzava dietro la porta appena ci sentiva salire le scale. O ci faceva gli “agguati” fuori dalla porta del bagno, cambiando direzione appena le si diceva “guarda che ti ho vista” o, ancora, come quando, impettita e orgogliosa con il suo guinzaglietto rosa a brillantini, la portavamo dalla veterinaria: e lei si piazzava sulle spalle di Lui per farsi difendere dagli altri animali, ricompensandolo poi del suo aiuto mostrandogli – sulla strada del ritorno – come aveva imparato ad arrampicarsi, proprio come le aveva insegnato lui. Solo che per dimostrare quanto avesse imparato bene, doveva arrampicarsi su ogni albero, allungando di cinquanta minuti una strada che avremmo percorso in 5.



Ma nonostante si comportasse come una persona, Margot era pur sempre una gatta con l’istinto di arrampicarsi.

Ciò che ci ha fatto star peggio quando se n’è andata è stato che non ce l’aspettavamo assolutamente: i veterinari non avevano capito quanto fosse grave, si erano limitati a medicare e voler operare la zampina senza accorgersi di quanto si fosse gonfiata in conseguenza del colpo ricevuto. E così, mentre noi pensavamo che la sera, una volta a casa, come premio avremmo cucinato un bel pesciolone solo per lei, lei invece già sapeva come sarebbe andata a finire: sennò non mi spiegherei gli occhioni enormi, tristi e riconoscenti con cui mi ha salutata per l’ultima volta.

Ancora proviamo un’infinita tenerezza nel ricordare come ha voluto accomiatarsi da chi le ha voluto bene: nonostante il dolore e nonostante arrancasse su tre zampe (la quarta era fasciata stretta al corpo) la domenica pomeriggio è saltata in braccio a mia mamma rimanendo così per diverse ore, proprio lei che raramente si faceva accarezzare. Ma, evidentemente, si ricordava del lungo corridoio di legno dove aveva trascorso qualche settimana d’estate facendo scivolate degne di Michael Jackson, o forse aveva nostalgia di quella morbida poltrona fiorita eletta a sua cuccia privilegiata.

 

E poi, la notte, era saltata sul lettone, si era infilata sotto le lenzuola e lì era rimasta: un po’ in mezzo a entrambi, un po’ stretta vicino a me impedendomi di muovermi per la paura di farle male.

Credo che per noi, per tutti noi – la mamma, ma pure la nonna che nella sua repulsione per gli animali ha comunque versato qualche lacrima alla notizia di ciò che era successo, amplificando così la nostra tristezza – dicevo: credo che noi tutti la guardassimo come fosse Pinocchio. Come se da un momento all’altro potesse togliersi la sua pellicciotta maculata, su cui sembrava essere stampato il numero 105, per alzarsi sulle zampine e chiedermi dei vestitini.

 Per settimane mi sono sentita come uno zombie, senza forza, incapace di frenare le lacrime: non importava se stessi camminando in mezzo alla gente, parlando con Lui mentre eravamo a cena, guidando in mezzo alla statale con altre automobili che mi affiancavano.

E anche poco fa, scrivendo, non ho potuto trattenere le lacrime.

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