venerdì 5 dicembre 2014

ci vuole coraggio, bis

B. Morisot, La culla
A dispetto di chi, ai tempi della contestatissima chiusura del Punto Nascita di Gorizia, ha sostenuto che per arrivare in quello che l’ha inglobato ci si impiega pari tempo, il tragitto in ambulanza è stato un vero e proprio viaggio. Certo l’ansia moltiplica tutto, ancora di più se condita dalle urla a martello del fagottino che tieni stretto e che senti sussultare a ogni minimo risentimento dell’asfalto. Ma mettiamoci pure il traffico delle 17.30: che non è poco.
Saliamo in pediatria. Ci accoglie il dottor L. e un’ infermierona che più tardi, evidentemente infastidita dagli acuti incessanti di Briciolina, chiede dove sia il suo ciuccio (a casa, nel cassetto del mio comodino, ancora intonso) decidendo poi di accendere la tv sui cartoni animati: selezionando un canale che farebbe piangere pure me, se non avessi già altro motivo per farlo. Il dottor L. conferma l’otite con perforazione del timpano; ma soprattutto, con calma e garbo infiniti, decide di non imbottirmi di Valium preferendo tranquillizzarmi a parole, spiegandomi il perché e che cosa attendersi dalle convusioni e dicendomi che questa notte la passeremo in ospedale per poter monitorare la febbre, sempre alta.
Ci spostano nella stanza a fianco dell’ambulatorio, la stanza con l’aeroplano sulla porta. Lo strano di tutto questo è trovarsi in un ospedale diverso con intorno la metà delle infermiere e ostetriche che hanno visto nascere la Princi e Briciolina: sempre dolci, molto accudenti e rassicuranti. E questo nonostante inizi il “balletto della pipì”, ossia l’andirivieni per posizionare e controllare il sacchetto della raccolta urine, uno strumento di tortura che eviterà a Briciolina la ceretta inguinale fino al raggiungimento della menopausa. Comincia anche il susseguirsi incalzante di telefonate, messaggi, post con parenti, amici, persone che appena ci conoscono ma decidono di esserci vicine e farci coraggio. Credo però non dimenticherò mai il silenzio del papà-nonno quando l’ho avvisato: l’ho sentito pietrificarsi; e il giorno dopo, quando mi ha telefonato per sapere come andasse, è stato l’unico in tutta questa situazione a chiedere come stessi io.
Lui (che aveva appena finito di lavorare e che probabilmente ha incrociato per strada l’ambulanza con noi sopra) è stato avvertito dalla mamma-nonna che, per non aggiungere ansia a quella già esistente, gli ha solo detto di tornare subito a casa. E così, poco dopo aver salutato la Princi, saputo che eravamo in ospedale, sgranocchiato una pizza, ha ripreso l’auto per fare a ritroso la strada da cui era appena venuto per raggiungerci e portarmi almeno lo spazzolino, le ciabatte e un cambio di biancheria.
Non mentirò dicendo che ho vegliato tutta la notte: ero talmente stanca che sono riuscita a dormire fino alle 5.30, con un’interruzione quando l’infermiera è venuta a monitorare la temperatura di Briciolina. Ma ancora oggi, passate tre settimane, quando la vedo mogia, imbambolata, lo sguardo un po’ intontito, mi spavento, la chiamo, le faccio il solletico: e la sua risata piena, rotonda e solare, mi basta come risposta. Se dorme, spesso controllo se respira: e credo andrà avanti così fino alla maggiore età.
Siamo state dimesse a metà pomeriggio, dopo una mattina di visite da parte della nonna2, delle zie M & A, di Lui e Princi che hanno anche pranzato con noi colorando il verdino della stanza con i colori di hamburger e patatine presi al take away. Nel frattempo la febbre era ormai sparita ma Briciolina si era trasformata nella Pimpa: sesta malattia, ha annunciato la pediatra; e stando così le cose, si spiegano le convulsioni (e quindi questo sarebbe stato l’unico episodio), la febbre, il mal di orecchie. Ma tanto per non farci mancare nulla, dopo alcuni giorni l’urinocoltura ha rivelato un’infezione urinaria.
Dopo la dimissione, le mie giornate sono state un continuo avanti e indietro stile Sor Pampurio (personaggio che rammentava spesso mio nonno) fra l’ambulatorio del pediatra e le farmacie per fare incetta dei sacchetti per una nuova urinocoltura, i cup degli ospedali della zona per prendere l’appuntamento per l’eco renale, di prassi per i neonati colpiti da infezione urinaria, il negozio per rifornirci dei chili di Pasta Fissan necessari ad arginare la pesante dermatite probabilmente causata dagli antibiotici… per tutto questo, dopo aver disertato la presentazione di una mostra in programma proprio il giorno seguente il ricovero, stavo per rinunciare al corso di giornalismo di cui –effettivamente – poco mi interessava, ma che mi è servito per dare aria al cervello. E quasi quasi stavo per disdire pure gli impegni di questi giorni, a cui al contrario tengo parecchio.
Ma queste tre settimane non si sono esaurite nella sesta malattia con gli annessi e connessi, infezione urinaria compresa. Terminati gli antibiotici lo scorso lunedì, Briciolina ha dovuto ricominciarli il venerdì per una nuova otite che noi – a seguito di due notti in bianco – avevamo ingenuamente scambiato per l’insorgere dei denti. Nel frattempo, la scorsa settimana anche la Princi si è fatta alcuni giorni a casa da scuola per febbre e influenza intestinale cominciate naturalmente nel week end. E lo scorso fine settimana, dopo aver trascorso il pomeriggio sulle giostre insieme a lei, pure Lui ha avuto un po’ di febbre che l’ha fatto insaccare sul divano, con la tuta di pile (sfoggiata solo in queste grandi occasioni, viste le sue consuete calure) per l’intera serata del sabato e tutta la domenica.
Bene: tornando alla  domanda del papà –nonno, come sto io?
Direi che per questo servirebbe un post a parte: per spiegare e sfogare lo sconforto, la malinconia, la percezione di solitudine di fronte a queste sfighe che (continuo a ripetermi) sono nulla in confronto a chi ha dei figli con problemi seri, quotidiani. Difficile spiegare le continue oscillazioni fra la voglia di scappare perché mi sento ancora, nonostante i miei anni, troppo piccola per affrontare queste cose e il desiderio di esserci sempre, di non perdermi un sorriso, un abbraccio, un «Ti voglio tanto bene, mami».

A rincuorarmi, a farmi respirare un po’, sono state la Princi e la mamma-nonna. Con la Princi sono stata al cinema domenica pomeriggio a vedere “I Pinguini di Madagascar”, con seguente cena insana ma necessaria per lenire il periodo: e da domenica stiamo andando avanti a chiamarci Agente Kowalski, Soldato e Skipper e a darci l’uno. Con la seconda, lunedì sera sono andata a vedere “”Il giovane favoloso: film che non mi è piaciuto molto (e non solo perché in alcuni momenti mi appisolavo), ma che dopo quasi un anno di assenza mi ha riportato al cinema a vedere qualcosa di diverso da un cartone animato.

lunedì 24 novembre 2014

ci vuole coraggio


Anche oggi dovrei approfittare del belvino (il belve-riposino) per fare altre cose. Ma se non scrivo scoppio.

Forse dovrei smettere di illudermi di poter riprendere una vita mia: in queste ultime settimane, è un po’ come se mi sentissi loro ostaggio.
Penso che da lunedì potrei riprendere la palestra; penso che potrei riprendere a collaborare con qualche giornale; penso che potrei/dovrei e mi piacerebbe molto andare alle inaugurazioni delle mostre (escluse ovviamente quelle che presento): e non appena penso queste cose, non necessariamente tutte insieme, succede qualcosa.

Non credo riuscirò a riassumere in un unico post ciò che è successo dal 14 a oggi: probabilmente mi serviranno più puntate perché oltre al resoconto oggettivo, c’è il resoconto emotivo. Che è un casino da dipanare, pieno di tutto e del contrario di tutto.
Intanto iniziamo: poi, ovviamente, molto dipenderà dal tempo che mi concederanno le mie datrici di lavoro.

Venerdì 14 novembre
Doveva essere una giornata di festa per il nono complimese di Briciolina che però ha pensato a un festeggiamento alternativo.
La mattina siamo andate dal pediatra, principalmente per assecondare il mio innato pessimismo: mica può avere solo la febbre, no? Meglio farle controllare le orecchie che non si sa mai, visto che solo un mese prima aveva avuto l’otite. La febbre, alta, l’aveva già da mercoledì sera: la sera, cioè, dal giorno in cui Briciolina mi aveva accompagnata a saccheggiare la biblioteca e già in quell’occasione mi era parsa strana perché insolitamente ameba durante tutto il tragitto in passeggino. A conferma della mia ipotesi, la sostituta del belve-pediatra ufficiale ha notato un principio di otite ma mi ha consigliato di attendere a darle l’antibiotico: attendere che peggiorasse, senza sapermi specificare in cosa consistesse un peggioramento.
Durante il pranzo e il primo pomeriggio, Briciolina era sempre più mogia finchè, verso le 16.30, ci siamo piazzate tutte e quattro sul divano (belve, io e mamma-nonna) per vedere Cenerentola. Ecco: io sono sicura che cambiare le mie abitudini porti male, così come divertirmi: perché ogni volta che lo faccio, succede qualcosa. E infatti, era la prima volta da quando la Princi ha iniziato a vedere i cartoni in dvd, che mi sedevo al suo fianco per vedermene uno dall’inizio alla fine. Ma arrivate solo alla scena degli uccellini che aiutano Cenerentola a vestirsi, Briciolina comincia a emettere strano suoni. Mi alzo con lei in braccio, decisa a darle l’antibiotico. Non trovo la siringa che dovrei usare per darglielo. I suoni si moltiplicano, chiamo la mamma-nonna, comincio ad andare nel panico e lei con me.

Briciolina per qualche momento non c’è più.
Ridotta a un bambolotto, sussulta, continua con quegli strani suoni ha degli scatti a ognuno dei quali mi va in frantumi un pezzo di cuore. Non riesco a usare il cellulare per chiamare il pediatra, per chiamare Lui. La mamma-nonna telefona allo zio per dirgli di venire subito e lui, per fortuna, ha la lucidità di dirle di chiamare il 118. L’unica cosa che sono riuscita a mettere a fuoco in quei momenti era infatti che non avrei potuto portarla a Gorizia perché hanno eliminato la pediatria; e, altrettanto chiaramente, ho realizzato che se mi fossi messa in auto per portarla a Ialmicco ci saremmo ritrovate a Reggio Calabria dato che già in momenti normali, ogni volta che ci vado, mi perdo per strada.
Mi chiedono cosa fa la bambina, mi dicono di spogliarla e cercare di raffreddarla. Appena la porto sul fasciatoio inizia a urlare e continua per le prossime due ore, ininterrottamente: il medico del 118, nonostante gli avessi raccontato dell’otite, ipotizza abbia mal di gola. Dopo due ore di strilli era effettivamente verisimile.
Metto le scarpe, esco così, con i vestiti da casa forse sporchi, la preoccupazione per Briciolina e la paura di cosa possa aver capito la Princi: che continua a vedere Cenerentola ma piange quando la saluto spiegandole che la sua sorellina sta male.
Il viaggio in ambulanza dura un’eternità: la preoccupazione, ma pure il traffico di fine giornata lo rendono indescrivibilmente lungo. La strada è un colabrodo, piena di buche e piccoli risentimenti che fanno sussultare Briciolina risvegliandola dai microsonni in cui precipita.
Poi ho capito.
Ho capito che in quel cicciobello che sussultava ho rivisto la zia, incosciente fra le braccia della nonna nell’unica (fortunatamente) crisi a cui ho assistito. nelle mie urla insistenti per richiamarla, per svegliarla, c'erano le sue esortazioni, rassicurazioni e premure verso di lei. Ho rivisto una situazione in cui si sono trovati degli amici. E in quell’ambulanza in cui sono entrata stringendo un fagottino con il solo body avvolto in una coperta, gli occhi di tutti i passanti puntati addosso, ho visto le volte in cui su quell’ambulanza sono entrata io.

Recentemente è stato più volte postato su facebook un articolo che inizia dicendo che per essere mamme bisogna avere degli stomaci forti. Non per l’odore dei pannolini che accartocci dopo aver spalato montagne di cacchina santa; non per ripulirti della minestrina che ti viene sputata addosso; non per fingere di non vedere i rigurgiti e le sbavature che ti rigano la maglia nuova di boutique. E neanche per gli insulti che prendi dai due anni in su ogni volta che dici un no: perché quelli, almeno nel mio caso, vengono fortunatamente ricompensati dalle due-tre volte al giorno in cui la Princi mi si avvicina sussurrando «mamma, ti voglio tanto bene».
Ci vuole stomaco d’acciaio per fronteggiare i loro malesseri: dalla febbre e/o le urla che seguono il primo vaccino, ai nasi con moccoloni che sgorgano a ogni stranuto, ai graffi per le prime cadute, alle malattie più serie. Ho pensato tanto alla nonna: al cuore grande che deve aver avuto per sopportare il dolore di vedere sua figlia entrare e uscire dall’ospedale, mille volte senza capelli, con il capo segnato da cicatrici che sembravano autostrade. E le crisi, vederla consumarsi, non poter più camminare, vedere. L’ho pensata e mi sono sentita così inadeguata rispetto a lei per essermi lasciata abbattere così da una semplice convulsione: semplice, perché questa settimana (mi ha spiegato la pediatra dell’ospedale) ne abbiamo visti quattro di casi simili; semplice, perché è molto comune nei bambini fino ai 5 anni. Semplice, già: ma per un genitore insostenibile da vedere.

Da quando sono nate le belve, sane, perfette, ho sempre temuto che potesse e possa succedere qualcosa che intacchi la loro salute e perfezione. Non si può vivere nella paura o pensandoci continuamente, dice Lui; ma per me non è così, perché temo che appena abbasso la guardia, la sorpresa – brutta, ovviamente – è dietro l’angolo.

giovedì 13 novembre 2014

avventura sentimentale

Sfidando la pioggia, ieri mattina sono andata a Udine con Briciolina.
Missione: saccheggiare la biblioteca di buona parte dei libri che mi possono aiutare in un mio prossimo ingaggio lavorativo.
Come già successo in una missione analoga, con medesima destinazione, affrontata assieme alla Princi circa un anno e mezzo fa, è stata una piccola avventura e un viaggio sentimentale.
Avventura perché ho dovuto comprimere il da farsi in poco meno di due ore, quelle comprese tra il deposito della Princi a scuola e mezzogiorno, ora in cui il Big Ben sistemato nello stomaco di Briciolina inizia a suonare, indipendentemente da quando abbia fatto merenda.

In parte avevo predisposto tutto dalla sera precedente: messo in borsa il quaderno con i riferimenti bibliografici, tirato fuori le giacche pulite per le belve, pensato a come vestirle. Perchè quando si hanno bambini, ogni minimo spostamento si trasforma in un trasloco con un bagaglio variamente ingombrante e buono per le quattro stagioni. E così poi ieri mattina, visto che non stava diluviando, appena ho mollato la Princi ho imbarcato Briciolina e siamo partite.

Avrei voluto fare altre tappe in città: ma oltre mezz’ora è andata per trovare un parcheggio adatto alle dimensioni della Bestia: la volta precedente, infatti, avevo ancora l’auto media taglia. Altra mezz’ora è andata per raggiungere il centro dal parcheggio oltre che per scaricare passeggino, insaccarci Briciolina e metterla sottovuoto visto che stava gocciando: ed è stata praticamente la prima volta in cui ho usato la plastica protettiva dato che la Princi non ha mai voluto emulare un wurstel e quindi, se pioveva, o si stava a casa o la si portava per brevi tragitti in braccio. A dire, l’utilità di avere almeno due bimbi: ciò che non abbiamo usato con la prima o che lei ha bellamente sdegnato (anche a livello di giocattoli) sembra far impazzire la seconda, costringendo la Princi a riconsiderare tardivamente le proprie posizioni, tanto da indurla a provare l’ebbrezza del box, con buona pace di Briciolina che ci starebbe volentieri se non venisse travolta dalle gambe a fenicottero della sorella.

Arrivate in centro, pausa merenda: dribblando gli avventori in piedi al banco, ci siamo addentrate per accompagnare il suo yogurt a un ottimo marocchino. Poi, la meta. Eccoci nella biblioteca bambini, uno spazio bellissimo la cui funzionalità – come peraltro nella sezione moderna – si è bloccata al limite della mia condizione di mamma con bimba in braccio. Capisco che tutti i libri di cui avevo bisogno fossero a scaffale aperto e ne avevo già la collocazione: ma darmi una mano a cercarli e tirarli fuori, visto che da una parte dovevo tenere nove chili di canguro saltellante che allungava spaventosamente le manine verso tutto ciò che guardavo e lei intercettava?



Vabbè, ce l’ho fatta: orgogliosa soprattutto per aver portato Briciolina in un luogo tanto speciale. Anche se penso di aver creato due mostri. Al ritorno, infatti, per convincere la Princi a desistere dal correre nell’aiuola di fronte alla scuola visto che pioveva, le ho detto di avere a casa due sorprese per lei: e se una era il suo primo invito a una festa di compleanno (e, dalla felicità, ci stava andando a fare il pisolino insieme), il secondo erano appunto i libri. Libri che ho preso per me, ma che devo testare su di lei per preparare i due incontri sull’arte destinati ai bambini della scuola primaria, commissionatemi nell’ambito di un festival letterario a inizio dicembre. E così ci siamo piazzate sul divano e abbiamo iniziato a leggere la biografia a fumetti di Leonardo, poi – dopo il riposino – abbiamo ripreso da Raffaello. E stamattina, dato che le ho detto che non avremmo potuto leggere perché dovevamo prepararci per la scuola, si è appollaiata da sola sullo sgabello della cucina per riprendere la lettura di Leonardo. Ora devo solo attendere il suo risveglio per appuntarmi eventuali acuti commenti sugli altri autori e libri.
Ah, no: oggi si torna in biblioteca, ma per ritirare il dvd di Cenerentola. Ok: il mostro forse l’ho creato ma sotto le spoglie di una principessa.

mercoledì 12 novembre 2014

le buone scuse per essere mamma

Continuiamo sulla scia di “essere mamma perché…”.
Ci sono molti vantaggi, a dire il vero, perché essere mamma ti dà ottime giustificazioni per una serie di eventi.
Hai un bimbo, nella fattispecie due, quindi puoi:

1.     uscire con i capelli sparati nelle direzioni più impensabili: potrai dire, o tutti crederanno, che la colpa sia delle innumerevoli volte in cui ti sei alzata e ricoricata per sedare i pianti delle belve. In realtà ti sei rigirata nel lettone pensando a come riuscire in due ore a concentrare spesa, pulizie, ricerca di un regalo, lavorare al computer, dar la merenda alla piccola, e chi più ne ha più ne metta; oppure hai pensato a come uscire viva da un fine settimana di inviti a cene/pranzi; oppure hai provato tutte le combinazioni possibili per incastrare un puzzle di scuola materna/sistemazione della mini/palestra/rientro con pranzo della mini/recupero della maxi;
2.    uscire con una riga di fondotinta sulla guancia stile Ultimo dei mohicani (realmente successo): puoi dar la colpa al fatto che la grande ha aggiunto un suo tocco di creatività al tuo viso, mentre la verità è che ogni mattina ti trucchi a rischio strabismo perché con un occhio guardi la piccola affinchè non tenti un volo d’angelo dal fasciatoio, con l’altro controlli i nascondigli di tutta la casa in cui la grande sta disseminando creme, assorbenti e saponi e ogni tanto provi a buttare verso lo specchio il terzo occhio, che ti è spuntato da quando sei diventata mamma; verità bis: la luce del bagno non è ottimale per truccarsi;
3.    uscire con la maglia e/o i pantaloni e/o la giacca macchiati (nella migliore delle ipotesi si tratta di un all inclusive di tutti questi capi): realmente successo pure questo,  appena due giorni fa, ma nella mia sincerità ho svelato il motivo reale. Che, da due mesi a questa parte, è il raffreddore che rimbalza dalla mini alla maxi e ritorno; mentre da quando è arrivata mini, la causa ulteriore è la sua tendenza allo sbavamento continuo, fonte di scie da lumaca sugli abiti di tutti: credo dovrei rifondere la Mamma-nonna con un bonus in lavanderia dato che, appena nata, Briciolina in una settimana le ha svuotato l’armadio facendole riempire il cestello della lavatrice e costringendola a una pausa dal baby sitting perché rimasta a secco di cambi. Poi però i veri motivi possono essere diversi: non hai smacchiato a dovere la maglia, hai rubato la merendina della piccola e nella fretta di mangiarla ti sei sbrodolata, hai partecipato a un happy hour dai risvolti disastrosi (opzione altamente improbabile nel mio caso);

4.    uscire con scarpe nere, borsa blu, giubbotto marrone: Arlecchino ti farebbe un baffo e la colpa potrebbe essere della mancanza di tempo. Importante è – e lo dici anche agli altri – che le piccole siano vestite come bon bon, in perfetta tinta. In verità è un’ottima scusa se – ed è questo  il mio caso – non hai mai imparato ad abbinare i capi del tuo armadio perché quan’era il tempo in cui potevi impararlo ti sei disinteressata del tutto alla cosa e ora avresti bisogno di visite continue a Giovanni Ciacci per un total new look;
5.    non leggere: perché con le bimbe, la casa e Lui – alias il bimbo – proprio non riesci ad aprire uno di quei libri tanti accattivanti che, se hai un attimo di silenzio e li fissi, sembra reclamino le tue attenzioni. In verità, se anche le belve non ci fossero, leggeresti poco perché troveresti tante cose da fare fuori casa. Ma è un’ottima scusa;
6.    non scrivere: idem come sopra. Ma in questo caso non troveresti l’occasione di scrivere per non dover affrontare emozioni, pensieri, paure;

7.    non stirare: perché quando tiri fuori l’asse da stiro le belve si svegliano, perché quando sei lì che stiri una ti striscia fra i piedi e l’altra ti ruba lo straccio. Vero, verissimo: ma a questo aggiungiamo che non è la mia passione e che certe cose si possono riporre negli armadi anche senza una passata di ferro. Con buona pace della Nonna-bisnonna che ora mi vede dall’alto e senz’altro mi fulmina con gli occhi. 

martedì 4 novembre 2014

le ragioni per essere mamma

Stamattina, reduce da una nottata in semi bianco, ho dovuto confrontarmi con un ciclone: il ciclone Princi. A cui si è aggiunto, tanto per non farsi mancare nulla, il tornado Briciolina.
E allora penso.
Penso se valgo come mamma anche quando tiro un urlo più del dovuto. Penso come arginare e prevenire queste crisi per le quali vorrei interpellare un esperto del Pentagono. Penso che mi manca qualcosa: mi manco io. Io con i  libri che vorrei leggere, le mostre da visitare, i viaggi da fare, i film da vedere al cinema, gli spettacoli da godere a teatro, la palestra, gli aperitivi con gli amici, il tempo di buttare una montagna di vestiti sul letto per decidere quale mettere. E allora penso ancora: che forse se mi dedicassi a queste cose magari sarei più serena e passerei meglio il tempo con le belve. Poi mi guardo attorno e penso infine: già, ma chi vogliamo prendere in giro? Chi ci pensa a lavatrici, pappe e cene da preparare, vestiti da ripiegare, lavastoviglie da caricare? Così adesso, che finalmente (ma chissà per quanto) le belve dormono, invece di:
a.      Stirare;
b. Smacchiare magliette e/o bavaglini e/o asciugamani intrisi di cibo di dubbia identificazione;
c.      Leggere l’ultimo libro di Flavio Caroli;
d.   Leggere il numero di settembre di Art Dossier che giace appunto da due mesi, ancora intonso, sul comodino;
e.      Spazzare;
f.      Fare il cambio stagione nell’armadio (il mio, ovviamente);
g.     Cucire i pantaloni principeschi che stamattina, scarpe già ai piedi, ho visto scuciti

Invece di tutto questo e altro che ora non mi viene in mente, scrivo.
Scrivo le ragioni per essere mamma.
Perché è inevitabile: quando sei sul punto di chiamare a raccolta l’Uomo Ragno, Hulk, Mrs. Doubtfire, Mary Poppins e magari Rossi e Hotchner di Criminal Minds per entrare nella mente delle belve e capire come uscire viva dal panico del momento, pensi ai motivi buoni per cui ti ritrovi a fare la doccia insieme alla Barbie e non a Lui, con una bimba che gattonando ha rovesciato il bidoncino dell’immondizia pieno di pannolini sporchi e l’altra che sta apparecchiando il suo scalino per raggiungere il water con tutti i contenitori e le padelle che è riuscita a rubare dalla cucina.
Quindi vediamo. Essere mamma vale la pena per:
perché una mattina su sette la Princi ti da’ il buongiorno buttandoti le braccia al collo o confessandoti che «È bello C. P!» (il suo compagno di scuola) anziché piangere strillando alle 5.45 perché vuole il latte;
perché quando, in meno di un’ora e mezza, riesci a: preparare la colazione per tutti, sparecchiare, far lavare i denti alla Princi, lavarle il viso, dare il biberon e cambiare Briciolina, farti doccia e capelli, vestirvi e uscire di casa ognuna con il suo giubbotto e non a giacche invertite pensi di essere un dio;
perché una mattina a settimana la Princi ti chiede se si va a scuola aspettando ansiosa una risposta affermativa: e quando la vedi dare la mano alla maestra o alla sua amichetta salutandoti tranquilla, pensi di aver fatto un buon lavoro, perché sa che ci sei e che le vuoi un’infinità di bene;
perché quando torni a casa e rifai il letto facendo cucù a Briciolina, lei ride con gli occhi, poi con il sorriso e ti si spalanca il cuore. Se poi comincia con le sue cantilene, è la fine: ti sciogli sul momento;
perché quando dormono entrambe, apprezzi di più il silenzio surreale che cala sulla casa anche se non sai di quanta autonomia si tratta;
perché ti senti responsabile di ogni complimento per la bellezza dei loro occhi o per come si comportano, anche quando urlano «Mamma devo fare la cacca» nel mezzo del bar;
perché fino al momento di andare a scuola tutte le cose che fanno e dicono sono quelle che tu hai loro insegnato: e allora se conoscono Chagall, sanno esibirsi in un arabesque o confondono il titolo “Gnam gnam style” con whats ap vuol dire che ascoltano ciò che dici;
perché alla fine di un capriccio, la Princi mette il suo musetto vicino al tuo per dirti «Mamma, ti voglio tanto bene» stringendoti in un gigantesco abbraccio;
perché ci sono dei momenti in cui già si assapora l’intimità e una sorta di complicità fra donne(che durerà ancora per un anno?!);

perché la casa può essere un bordello di disordine ed essere al limite della denuncia alle autorità sanitarie per i nugoli di polvere che si rincorrono fra le stanze, ma sei giustificato: hai dei bambini;
perché puoi vestirti come i Puffi, sempre uguale per gli ultimi mesi della gravidanza e i primi del post parto perché non hai null’altro che ti stia addosso senza sembrare una salsiccia;
perché quando ti svegli la terza volta in una notte, per la settima volta a settimana, perché la tua piccola sta male, mentre cammini su e giù per il corridoio la senti solo, esclusivamente, tutta tua e senti le sue manine sulle tue spalle, abbandonate per dirti che sei l’unica cosa di cui ha bisogno.

Poi la mattina ti svegli: e se hai tempo di farlo, vedi il riflesso del tuo visto grigiastro nello specchio, con due mezzelune viola sotto gli occhi e i capelli sparati che non ti serve neppure il gel per rialzarli. E sei di nuovo lì, nuda in mezzo al bagno, a chiederti perché una strilla e l’altra punta i piedi per entrare nella doccia.

mercoledì 22 ottobre 2014

Ciao, semplicemente ciao


Un anno fa, a quest’ora, avevamo appena parcheggiato e stavamo salendo le scale dell’università. Non sapevo che, nel frattempo, mamma avesse telefonato al dottore che si era precipitato con insolita rapidità a casa ordinando di procurarsi una bombola a ossigeno.

Un anno fa, passate alcune ore in cui la Princi era stata spupazzata da un parente a un amico fin quasi ai professori, assistevamo alla proclamazione a dottoressa della zia Cucciolo, cominciando una sequenza di foto festose con tanto di corona che passava di testa in testa. E, negli stessi momenti, chissà cosa stesse facendo mamma e se fosse con qualcuno.

Un anno fa, dopo l’ufficialità della laurea, iniziava una serata in cui, se la festeggiata era appunto la zia, la protagonista era invece la Princi che si è divertita a completare il cartellone, a ridere a ogni intonazione di “Dottore, dottore…”, a infiammarsi per ogni ip ip urrà che veniva lanciato. A cinquanta chilometri di distanza, la nonna ansimava sempre più affannosamente.

Un anno fa, mentre tornavamo all’auto con la Princi sfinita nel passeggino e mentre riprendevamo la strada di casa, verso le 23 la nonna si era alzata per andare in bagno e, di ritorno, si era accasciata, pesante come un macigno impossibile da sollevare per la sola mamma: che, quindi, aveva chiamato lo zio. Poco dopo, adagiata nel letto, con un sospiro salutò chi le era vicino. E mentre il medico legale stava aspettando di vederla uscire per sempre da quella stanza in cui negli ultimi mesi aveva passato tante ore, noi, appena rientrati in casa, dovevamo fronteggiare la Princi che si era risvegliata urlando, piangendo inconsolabilmente con un capriccio che si è poi ripetuto nel cuore della notte: e solo dopo ho capito che era il suo modo per salutare la bisnonna.

Grazie alla tecnologia (il cellulare si era attaccato alla rete slovena), ho saputo cosa fosse successo solo la mattina dopo, e solo quando già stavo andando a casa di mamma: forse è stato un bene, perché tanto la sera non avrei potuto far nulla e avrei trascorso una notte ancor più angosciata di quella che ho passato cercando di frenare i caPrinci. Però il modo in cui ho avuto la notizia lo ricorderò per sempre. Ormai alle porte della città, la mamma è riuscita a finalmente a telefonarmi dicendomi di fare con calma perchè «Nonna non c’è più». Stavo guidando e ho urlato, pianto. Ha pianto anche lei e non sapendo cosa dire, mi ha passato lo zio: ma dopo poco ho riattaccato. Ogni volta che percorro e percorrerò quel tratto di strada ricorderò quel momento.

È trascorso già un anno e di cose ne sono successe parecchie.

La più importante direi che è la tenuta di mamma: tutti temevamo la partenza di nonna perché pensavamo sarebbe crollata. Invece no: si è buttata a capofitto nel mestiere di nonna forse anche alla ricerca di tutte quelle coccole e dolcezze che non ha – non abbiamo – ricevuto dalla nonna-bisnonna. La quale, però, fino all’ultimo momento aveva la Princi nel cuore, e per ricordarsi il suo nome lo aveva appuntato su un foglietto che abbiamo ritrovato nel portagioie. Era l’unica che riconosceva in un momento in cui, precisa e anti-filogattara com’era, non si rendeva neppure conto del gatto Billy e del signor Degas accoccolati ai suoi piedi per salutarla. E nei giorni successivi alla sua partenza, quando stendevo la Princi sul fasciatoio per cambiarla, lei guardava il soffitto e sorrideva, forse riconoscendo in alto il volto della nonna Carolina che, appena entrava in casa, correva a cercare nella sua stanza, rimasta chiusa per alcuni giorni. Quando è stata riaperta, la Princi ha subito chiesto dove fosse: «Qui, nel tuo cuoricino», le ho risposto prendendole la manina e appoggiandola sul petto: e ancora oggi, se le si chiede della nonna, risponde così.

Non abbiamo mai saputo se avesse capito davvero che stava per esserci un nuovo allunaggio e una cosa di cui mi sono pentita è non averle detto il nome che avevamo scelto per Briciolina: il nome di sua mamma, una donna forte e orgogliosa come spero diventi la mia cucciola. Ho pensato a nonna quando ero in sala parto: ho pensato a lei per convincermi che il dolore che stavo provando fosse nulla in confronto a quello che deve aver provato lei. Mi è mancato non vederla in ospedale a conoscere Briciolina, mi fa male pensare che non senta le sue risate e veda i suoi occhioni: ma in realtà so che sente e vede prima di noi.

Mi manca? Non lo so, a dire il vero: in realtà sembra che la vita sia sempre stata così, senza di lei. E forse in parte è vero: con le sofferenze che avevano costellato la sua esistenza, aveva in qualche modo tarpato gran parte degli aneliti di gioia, dei sogni e dei desideri di ognuno, anche il semplice desiderio di stare insieme creando quella famiglia sfondata in cui mi trovo tanto a mio agio. E così la vita, quella fatta di condivisione, amici, pranzi e cene in compagnia, caffè bevuti al bar per incontrarsi, viaggi, semplici corsi di ginnastica e computer è in qualche modo iniziata da un anno a questa parte: per mamma senz’altro.

Sembrerò impietosa e ingiusta verso la persona che tanto mi ha dato e a cui devo tanto: e infatti ritrovo in me molti suoi atteggiamenti, soprattutto quell’ansia di perfezione per la casa che la contraddistingueva. Ma a dire il vero, se tante volte sacrifico del tempo con Lui o le bimbe per pulire e ramazzare, tante altre giro le spalle o, come adesso, mi siedo e scrivo: di lei, a cui ho voluto e vorrò sempre tanto bene.


E finalmente, a un anno di distanza, le ho dedicato dei pensieri.

giovedì 16 ottobre 2014

16 ottobre

E intanto oggi, dalla scuola materna, è arrivato il primo lavoretto: un pesciolino-collana con cui i “grandi” hanno accolto i “cuccioli”

otto mesi di mamma



Dunque: le belve dormono già da un’oretta circa, quindi non ho ancora molta autonomia.
Riprendere a scrivere dopo esattamente quattro mesi e un giorno dall’ultimo post mi pare grandioso, soprattutto tenendo conto che in questi mesi i miei pensieri hanno continuato a plasmarsi in “formato blog”.
Ma:
1.     tra la Princi e Briciolina (alias la Pulci, così ribattezzata perché sa –e in qualche modo deve – accontentarsi delle briciole di attenzioni che le riserviamo);
2.    la casa che si sporca con una velocità inversamente proporzionale alle volte in cui riesco a pulirla come si deve;
3.    i caPrinci da gestire (capricci della princi),le regrePrinci (regressioni della Princi);
4.    l’avvio della scuola (l’asilo dei “miei tempi”);
5.    e i fortunatamente numerosi seppur piccoli impegni di lavoro che ho avuto e ho…

beh, “grazie” a tutto questo finora i pensieri-formato-blog sono rimasti nella mia mente. E alcuni di questi non ne usciranno, purtroppo: passati nel dimenticatoio, surclassati da pensieri e preoccupazioni più fresche e aggiornate.

Comunque ora, non sapendo ancora quanto tempo ho a disposizione (ogni riposino equivale a un timer che solitamente scatta all’apertura del pc), volevo semplicemente scrivere che sì, mamma-con-i-calzettoni c’è ancora: più calzettona (perché dire che mi vesto casual –e quindi con calzettoni – suona come un elogio al mio abbigliamento degli ultimi mesi) ma soprattutto più mamma di prima. Perché nonostante il poco tempo che riesco a dedicarle, è da quando è arrivata Briciolina che mi sento davvero mamma; forse perché, contemporaneamente, ho dovuto fronteggiare e sto ancora fronteggiando le prese di posizioni della Princi. Che non sono poche, che sono toste e che necessitano di una vera mamma per essere arginate.

E quindi: eccomi.

la Princi vista dalla prospettiva di mamma-con-i-calzettoni scrivente


p.s: come volevasi dimostrare, il timer è scattato e quindi la pubblicazione del post avviene con la Princi e Ih Oh spalmati sul mio fianco sinistro

venerdì 13 giugno 2014

quattro mesi di noi quattro


Bene. Belve insolitamente addormentate: entrambe a un’ora decente, entrambe nel proprio letto. Marito altrettanto insolitamente fuori casa. Tv che, invece, come al solito non trasmette nulla di buono. Mamma-con-i-calzettoni che, infilata la canotta-pigiama di Minnie, dopo un attimo di smarrimento ed ebbrezza del tipo «E mo’ che faccio?» si ricorda di avere un blog che non aggiorna da tempo. Da quando cioè quel fagottino rosa dal sorriso sdentato e gioioso, dal faccino tondo incoronato da un boschetto di capelli nerissimi è arrivato a scuotere quella che ormai rischiava di diventare una routine. 

Ovviamente abbiamo glissato questo pericolo: e ora che la Pulci ha 4 mesi possiamo dire che siamo ancora, e costantemente, in fase di rodaggio.

Perché la Princi frigna e fa capricci di continuo.
Perché la Pulci ora si è calmata (e so che mi pentirò di averlo scritto perché subito verro smentita) ma nei suoi primi sessanta giorni non ha fatto che piangere, tutto il giorno, tutti i giorni: e grazie alle braccia della mamma-nonna che, proprio a seguito di questa “manovalanza”, ha costruito un rapporto di speciale intesa con lei.
Perché Lui reclama a sua volta attenzioni e, a ragione, dice che sono diventata insopportabile.

Perché io piango perlomeno una volta a settimana, più spesso due:  perché mi sento in colpa del fatto di esserci troppo, troppo poco per l’una o per l’altra, di esserci male; perché non gioco con una e non coccolo/porto in piscina/a fare i massaggini/canto all’altra; perché ogni tanto faccio volare qualche sculaccione o sgrido una e ogni tanto sbotto con continui «Basta! Basta!» nei confronti dell’altra che magari sta solo piangendo per fame.

Perché vorrei avere il tempo di scrivere: per raccontare finalmente come è andata in quella splendida mattina di sole in cui è arrivata la Pulci; per cercare vanamente di descrivere la gioia dei suoi occhi quando incrocia i miei o l’effetto calmante che produce la vista della Princi anche quando le sue intenzioni non siano bellamente pacifiche; per fissare a futura memoria le frasi e le buffe parole che quotidianamente sforna la Pulci: che ora, a parte essere impinzata per i Mistogatti, in pieno clima mondiale ogni tanto borbotta «dell’elmo di Scipio, cinta testa».

Ma soprattutto, oltre a mantenere una certa salute mentale e una parvenza di contatto con il mondo esterno, scrivere potrebbe aiutarmi una volta di più a fermarmi per mettere a fuoco quanto siano meravigliose, entrambe: nonostante i loro capricci, pianti, incubi notturni e miei mal di testa. Perché un giorno, non troppo lontano, tutto questo mi mancherà: e già ora mi trovo a pensare che vorrei il tempo si fermasse: ovviamente, nei momenti in cui la Pulci ride e la Princi imita le posizioni di danza che le sto insegnando.

sabato 22 febbraio 2014

Tu chiamale, se vuoi, emozioni


Da dove cominciare?
Da otto giorni fa, da oggi, da lunedì prossimo?

Diciamo da oggi.

Oggi che, a qualche giorno di distanza dal soggiorno-villeggiatura in ospedale (durato troppo poco per farmi coccolare e riposare a dovere) trascorro di nuovo qualche ora da sola con la Pulci, complice una festa di compleanno a cui Lui ha portato la Princi capendo (finalmente) i motivi della mia non voglia e scusandoli con un «Hai ragione: meglio se stai a casa a riposare».
Oggi in realtà non ho riposato molto, ma va bene così: sia perché la Pulci stanotte mi ha regalato un solo risveglio/poppata, sia perché ho voluto prendermi un po’ cura della casa, fatto che non credo si ripeterà con tanta frequenza d’ora in poi.

Mi sembra tutto così strano: pensare che appunto una settimana fa ero in ospedale; che otto giorni fa ho vissuto quell’incredibile esperienza dell’allunaggio – esperienza completamente diversa dal primo approdo; che in pochi giorni siano cambiate tante cose e che giovedì pomeriggio, pur presentendolo, non potevo affermare con sicurezza che di lì a breve avremmo assistito a tanti cambiamenti.

Come mi sento oggi?
E’ una strana sensazione sentirselo chiedere dalla mamma-nonna, solitamente più attenta allo stare fisico anziché psicologico; più “normale” sentirselo chiedere dalla Nonna 2; piacevole sentirselo domandare dalla zia M. e da chiunque possa, per vari motivi, ritenersi insospettabile a certe curiosità e attenzioni.

Mi sento…
che spesso mi viene da piangere: perché guardo il sorriso e la felicità della Princi e temo di averle fatto un torto “regalandole” la Pulci, temo di non riuscire ad amarla quanto merita, di non poterle dedicare le attenzioni che dovrei e vorrei: e questo ora che è Lui a occuparsi principalmente di lei; e mi chiedo come sarà lunedì quando tornerà al lavoro.

Mi sento…
che ho paura al pensiero che, appunto, da lunedì Lui non sarà presente h24 al mio fianco: per prendersi cura della Princi, giocare con lei, prendersi cura di me preparandomi mezzo chilo di insalata come ha fatto ieri sera o pulendo la casa senza che io glielo chieda. E per tutto questo aiuto, auspicato ma di cui tutto sommato non lo credevo capace, passa davvero in quarto piano il fatto che non mi abbia portato nemmeno una rosa in ospedale.

Mi sento…
che guardo la Pulci e mi viene da piangere: perché è così piccola, bella, perfetta, con ogni cosa al posto giusto, così simile alla Princi eppure così diversa. Perché come ha detto la dottoressa A., con cui siamo riusciti a parlare in extremis giovedì pomeriggio prima dell’allunaggio, ogni figlio è diverso perché arriva in un momento diverso, quando noi siamo diversi. La guardo e mi viene da piangere perché mi sembra impossibile sia stata lei a farmi sentire un dirigibile, a farmi muovere come un pachiderma con l’artrosi, a provocarmi tante nausee nei primi tre mesi, a farmi sentire infinitamente stanca e con forze talmente ridotte da non riuscire a star dietro alla Princi.

Piccola fotografa all'opera: particolare di piedini e frammento di gatto
Mi sento…
che mi viene da piangere pensando agli ultimi giorni trascorsi a tu per tu con la Princi: giorni che rimpiango perché eravamo appiccicosamente, forse troppo ossessivamente io e lei, con una piacevole routine che superava gli scogli dei capricci che di tanto in tanto ci regalava. E quando ora – la mattina – riesco a leggerle un libro sedute vicine sul divano mi sembra un deja vù ma tutto diverso.

Mi sento…
che mi viene da piangere perché sono entrambe così speciali, belle, divertenti, mie: perché in questo secondo allunaggio non ho dovuto imparare il senso di maternità, aspettare che si manifestasse scovandolo da chissà quale angolo di me. Questa volta mi sono sentita subito mamma, e non perché lo fossi già. O, almeno, non solo per quello. Sapendo cosa stesse per succedere “oggettivamente” prima dell’approdo, sapendo che non si sarebbe rotta prendendola in braccio la prima volta, sapendo dove mettere le mani per cambiarle il primo pannolino, sapendo gestire le perdite del post parto, i super sexy mutandoni di rete, i reggiseni da allattamento: sapendo tutto questo ho potuto concentrarmi sulle emozioni, le sensazioni di questa seconda ma nuova esperienza. Così da riuscire a chiamarla «Amore» appena l’ho vista.

Certo: non mi sarebbe dispiaciuto trascorrere un giorno in più nella bambagia dell’ospedale, circondata dalle attenzioni di tutto il personale, della famiglia e degli amici per dirottare le attenzioni che ricevevo verso la Pulci, dedicandomi solo a lei e a conoscerla. Perché, a ben vedere, quei tre giorni sono stati gli unici in cui io sono stata solo sua e lei solo mia.

Ma è stato forse più giusto dissolvere la bolla di sapone per tornare alla realtà e alla Princi: che di giorno fa la dura e cerca solo papà, ma di notte si sveglia chiamando mamma. E riuscire a giostrarmi fra lei e le poppate della Pulci è un rebus in via di risoluzione, mai definitiva.