domenica 23 settembre 2012

C come... (pars destruens)

C come cozza sullo scoglio: la definizione è stata coniata da un’amica, neo mamma anche lei; ma siccome rende perfettamente l’idea, le sono ampiamente debitrice. E’ una sensazione, un dato di fatto che sperimenti appena rientri dall’ospedale e rimani sola con la belva seppure sin da subito capisci che non sarai più padrona di niente: del tuo tempo, del tuo corpo (ma questo già durante la gravidanza) né, in sintesi della tua vita. Tutto viene risucchiato da quell’esserino che - per quanto minuscolo - ti ha nelle sue mani, proprio come tu riesci a stringerlo per intero nella tua, di mano. Insomma: se finora abbiamo fatto tanta bella poesia, è venuto il momento di parlare schiettamente. Essere mamma è un’esperienza meravigliosa, bellissima ma soprattutto travolgente, della cui realtà ti rendi conto poco per volta (per la serie: guardi dentro il lettino chiedendoti «Ma questo/a da dove arriva?»). E il tragico è che invece devi essere ben presente e lucida, in modo da ricordarti che devi nutrire, lavare, cambiare e vestire quel fagottino che dipende in tutto e per tutto da te. Se ci pensi è finita: prenoti il primo volo per le Mauritius e chi si è visto si è visto. Ulteriore elemento tragico è che questa graniticità ti viene chiesta non tanto dalla belva quanto dagli altri: hai partorito? Un attimo dopo devi sapere come e quando allattare, come e quanto pesantemente vestirlo/a, come farlo addormentare…e tutto questo quando ancora devi renderti conto che eri proprio tu quella che cinque minuti prima, un giorno prima, una settimana fa, un mese o due fa era in salo parto e che quell’esserino vicino a te è tuo, anzi: che tu sei sua. Per sempre. E, soprattutto adesso, per ogni istante. La definizione “cozza sullo scoglio” calza quindi a pennello: si dà per scontato che lo scoglio sia forte, imperturbabile alle mareggiate, ancorato al fondale con imperitura sicurezza. Dal canto suo la cozza è qualcosa di buono e succoso ma, a volte, fastidioso, capace – nella sua infinita piccolezza rispetto allo scoglio – di modificarne l’aspetto e il modo di fronteggiare le onde: è lo scoglio che deve farsi colpire per primo e levigare dall’acqua ma, questo, lo deve capire. Così come deve capire che, ora più che mai, non sarà più lui (in questo caso lei) ad attirare gli sguardi dei pescatori.
 

C come casa (di Sofia). E’ innegabile: tra le tante trasformazioni e stravolgimenti che comporta l’arrivo di un pargolo c’è quello della casa. A parte i lavori cui abbiamo messo mano negli ultimi mesi del suo viaggio, da quando la Princi è arrivata il nostro appartamento ha subito un restyling che neppure gli architetti e designer di “Cambio casa”: soprattutto, non sarebbero in grado di mutarlo e rivoltarlo con tanta velocità. Se prescindiamo dal fatto che già i felini ci hanno  costretto a costanti traslochi di lettiere, giochini e palestrina, ora basta l’arrivo di un nuovo gioco per imporre un riassetto del salotto, la stanza cioè più vissuta delle altre. E non solo dalla Princi, ma pure da noi, da eventuali ospiti e dai suddetti felini: per cui, al termine delle quotidiane sessioni di aspirapolveraggio, devo ricordarmi come incastrare o trovare un nuovo assett per seggiolone, box, tavolino, tavolo, sedie (ormai dimezzate a tre), palestrina e cuccetta.
Come “Alice nel Paese delle Meraviglie”, il soggiorno sembra dilatarsi e restringersi di continuo. Poi, ogni tanto, ci pensano nonne o parenti vari che, per il perfetto sviluppo cognitivo-motorio-comportamentale della Princi, propongono nuovi attrezzi. Si passa così dal «Vi prenderemo un bel tappetone per farla gattonare e rotolarsi» alla proposta di acquisizione di un girello che è stata fatta a Lui scatenando le mie ire: sia perché fino a cinque minuti prima eravamo concordemente contrari al suo utilizzo sia perché il nostro appartamento non è affatto simile a casa Forrester. «Così c’è un’altra cosa da spostare… Pulisci tu poi?». Momento di riflessione necessario per confezionare una riposta a effetto: «Ma questa non è più casa nostra: è casa di Sofia!». «E allora quando Sofia sarà in grado di pulire potremo anche prenderle il girello!».
 
C come contorsionismi: dovrei proprio decidermi e prendere appuntamento per un bel massaggio alla schiena, massacrata dalle passeggiate pomeridiane per addormentare un fagottino di ormai 8 chili, ampiamente sgusciante e motile, abbarbicato su spalla, fianco e pancia tanto da farmi assumere la forma a S tipica delle Madonne con il bambino di Giovanni Pisano. A questo ultimamente si è aggiunto il pappa-time che non si può semplicemente etichettare come momento dato che trascorre anche un’ora (o più) dall’ingresso del primo cucchiaino nell’hangar al completo dissolvimento della sbobba nella scodellina. La fatica di questa impresa non consiste solo nel convincere la Princi che quell’ammasso fosforescente (alias zuppa di carote o zucca) o indicibilmente denso (per l’aggiunta delle mitiche farine: di riso, mais e tapioca, cereali) sia commestibile, soprattutto perché preparato con tanto amore dalla mamma (ma lo stesso potrebbe dire, anche oggi, la mamma-nonna con me); il problema è che, anche quando mangia, la Princi deve tenere sotto controllo tutto e tutti. I radar del JFK non hanno un raggio d’azione analogo al suo: ogni minimo movimento di persona o cosa deve essere registrato e inserito nella RAM. Come le bambole, ruota la testa a 360° per agevolare lo sguardo che, nel contempo, spazia a 180° sull’asse nord-sud del seggiolone.
Il difficile, quindi, non è tanto farla uscire con una quota accettabile di macchie da una sessione di pappa ma è imboccarla, roba che forse sarebbe necessaria l’imbragatura di Tom Cruise in “Mission impossible” per avere successo. Il picco massimo di contorsionismi l’abbiamo sfiorato in vacanza dove, alle acrobazie circensi si sono sommate ore di note degne di un MP3. Canzoni più o meno stonate si sono alternate ad assoli di forchette e coltelli che Lui usava come nacchere per costringere la Princi ad alzare la testa quel tanto che bastava per farmi rapidamente rovesciare nella sua bocca spalancata un cucchiaio di minestra. Il trucco però aveva la durata di due imboccate dopo le quali si richiedeva un nuovo stratagemma. E lì è stata lei a lasciarci a bocca aperta preferendo al morbido, colorato e piccolo cucchiaio da svezzamento l’anonimo, freddo e metallico cucchiaio in uso nell’albergo: problema di dimensioni? Chissà: ma intanto anche questo espediente è durato il tempo di una pappa.
 
C come corpo dato in affitto: vedersi mamma non è solo questione di riconoscerti nel riflesso di quella persona che sta spingendo il passeggino e ti osserva con sguardo critico per la sciatteria che dimostri nel non essere riuscita ad abbinare scarpe e borsa e per la tamarraggine di calzare gli occhiali da sole nonostante la pioggia battente (ma le occhiaie battono di più). Vedersi mamma è riuscire a capire e, soprattutto, ad accettare che il tuo corpo non è più tuo: un dato di fatto che, necessariamente, ha delle ripercussioni anche sulla vita di coppia. Non è bastato gonfiarsi come un palloncino per nove mesi, con gambe come zampogne e fiato corto al secondo scalino; non è solo il ritrovarsi con una quarta dove un tempo governava la prima. Il punto è che quella quarta non è tua: per quante volte al giorno tu sia costretta a curarla e tenerla sotto controllo, di quella balconata sei solo l’affittuario. La belva ne è il legittimo proprietario ma, anche se non allatti, la situazione non cambia. La sensazione che ho costantemente avuto e continuo ad avere è quella di non riconoscere più il mio corpo come mio: è cambiato, inevitabilmente, e anche se rientro abbondantemente nei vestiti di prima – con mia grande soddisfazione – è come se ciò che vedo e tocco non mi appartenesse più. E non è solo perché effettivamente ci sono state delle trasformazioni; credo sia per l’inconscia consapevolezza che il mio corpo è stato “l’albergo” e poi la “conditio sine qua non” per l’arrivo e la sopravvivenza della Princi anche fuori dalla navicella: il mio corpo ha avuto un uso, una sua utilità che ora si è esaurita, con un po’ di sollievo e rammarico perché almeno negli ultimi mesi è servito a qualcosa. Non so se sia riuscita a spiegarmi: è una sensazione difficilmente trasmissibile a parole ma, assicuro, molto intensa.

C come...(pars costruens)


Uno dei limiti dell’alfa-Princi è senz’altro l’accavallarsi dei tempi: a poco tempo dall’allunaggio ho annotato sul mitico quadernino rosso (quello che mi ha tenuto compagnia in ospedale negli ultimi momenti da navicella madre) parole che si sarebbero dovute sciogliere in situazioni ed emozioni. Ora alcune di queste parole hanno perso (purtroppo) il loro significato, altre nemmeno ricordo perché le ho appuntate, molte altre, invece, se ne stanno via via aggiungendo. E se un esempio della prima tipologia è “computer” (l’unico pensiero che mi viene a proposito è il fatto che appena lo accendo approfittando di un pisolo della Princi lei si sveglia con guaiti), mentre nella seconda categoria rientra “carrozzella” (che non aveva nessunissima particolarità) un evergreen è senz’altro

C come cambio pannolino: un evergreen che, in realtà, va adattato alle fasi di crescita. Le prime volte alla goffaggine dell’inesperienza si assommavano i timori nel maneggiare quell’affarino di neanche tre chili senza spappolarlo; e, ovviamente, fare il tutto nel minor tempo possibile per soddisfare la fame della Princi e salvaguardare le nostre orecchie da una precoce corsa al centro Amplifon più vicino. E così ci mettevamo all’opera spesso in coppia e con una studiata sincronia di movimenti da far impallidire il team della Ferrari: uno che apre e toglie “il contenitore” avendo la fortuna (??) di scoprire per primo l’entità della sorpresina, l’altro che pulisce mentre si sta preparando alle sue spalle una bacinella per l’abluzione, sintomo di una sorpresa ingente che – spesse volte – si è replicata in diretta costringendoci a prendere un nuovo pannolino e richiudere quello precedentemente posizionato per evitare sconfinamenti che pure ci sono stati… e così oltre alla Princi abbiam dovuto lavare anche il fianco della lavatrice e tutto ciò che si trovava sulla giusta traiettoria. Ora, invece, il problema è un altro: la motilità di questo serpentello sgusciante che, dopo aver deciso che è troppo faticoso mettersi seduta da sola, ha scoperto che è più semplice farlo (ovviamente da sdraiata) se si tiene sui bordi del fasciatoio. Ulteriore problema (a questo primo ovviamo grazie alla larghezza contenuta del nostro bagno per cui riusciamo sempre a tenerle una mano addosso anche se ci voltiamo) è il fatto che in certi periodi è piuttosto riottosa a stendersi, cosa che è capitata in particolare all’indomani del vaccino forse per l’associazione della posizione alla fastidiosa punturina: e indovinate chi l’aveva adagiata sul lettino dell’ambulatorio e quindi si sorbiva gli strilli del cambio?
Postilla: l’ostetrica T. consigliava di compiere questa delicata operazione di pulizia prima della pappa per evitare che, soprattutto nelle ore notturne, il pargolo si agiti o svegli eccessivamente. Noi, visto che la Princi a un certo punto della pappa si appisolava, lo facevamo a metà, ma poi, visto il reiterarsi dell’incidente espulsivo di cui sopra, cambiavamo il pannolino (e ancora lo facciamo) senza una rigida tempistica tanto che di notte, sin dal secondo mese, neppure mi alzavo a meno che non presentissi una grossa emergenza. Fortunatamente la Princi non ha mai avuto problemi di sederino arrossato: e anche se non aveva il pannolino pulito per qualche ora in più non le è capitato nulla di particolare né ha perso mai il suo sorriso. Quindi a questo proposito, come per molti altri campi di intervento, il consiglio è: fate vobis. Non perché, come dicono in tanti, «una mamma sa cosa fare»(che non è vero) ma perché le cose si decidono insieme, mamma e bimbo, alla ricerca costante di un equilibrio che faccia bene e faccia vivere (talvolta: sopravvivere) entrambi.

C come ciuccio: questo sconosciuto. Come molti degli attrezzi da bebè, il ciuccio è all’origine di schieramenti fieramente opposti. Nella serie standard di domande che si pongono ai neo-genitori, dopo «Dorme?» e «Mangia?» in genere viene «E tiene il ciuccio?» (che, in realtà, si contende la terza posizione con «Che pediatra avete?»). A oggi abbiamo notato che lo schieramento più corposo è quello di chi, quando rispondi che non l’ha mai tenuto, replica con una punta di invidia e/o sollievo «Meglio!», senza notare il malcelato disappunto della tua risposta. Neo-genitori di bimbi “ciuccioni”, nonni o genitori già navigati che pare abbiano lottato per togliere questo strumento più di quanto non abbiano fatto per limitare l’uso della Ps3 sembrano non ricordare quanto può essere utile il ciuccio in quei momenti di crisi che richiederebbero l’intervento dell’intero Pentagono per essere risolti. Il cavallo di battaglia per la lotta al ciuccio è il fantomatico insorgere di eventuali problemi di dentizione, spauracchio temuto anche da Lui. Personalmente non ci credo molto, tanto che pure adesso di tanto in tanto provo a propinarlo alla Princi soprattutto quando passeggio per ore nel tentativo di addormentarla dopo pranzo: ore che lei, rigorosamente in braccio, trascorre ciucciandosi la mia maglia ad altezza spalla. Forse, se saltasse l’occasione lavorativa della mia vita per essermi presentata completamente sbavacciata, allora anche Lui si ricrederebbe. 

C come costanza: intesa come costanza di orari. Fanno impressione, soprattutto se si è reduci da una notte insonne o punteggiata da quattro o cinque risvegli, ma difficilmente si può credere a quelle mamme che, appena rientrate dall’ospedale, proclamano trionfanti: «Ah, lui/lei dorme dalle nove di sera alle nove di mattina». Provato: a parte che una simile dichiarazione discredita le prescrizioni di pediatri, puericultrici e affini secondo cui i cuccioli devono mangiare ogni tre/quattro ore, per il resto si tratta di un’eventualità, fortunata ma pur sempre un’eventualità occasionale, pronta a non ripetersi nel giro dei prossimi due o tre mesi. Se a questo si aggiunge che alla prima notte intera sua corrispondono le tue veglie agitate per verificare se è ancora vivo/a il quadro è completo: e l’occhiaia può più agilmente spalmarsi sul tuo viso. Non a caso è solo in questi mesi che ho preso l’abitudine di usare con assiduità gli occhiali da sole.

C come cicogna: negli ultimi mesi della gravidanza mi guardavo intorno alla ricerca dei ”rivenditori di cicogne” finchè non l’abbiamo trovata. Presi dal fervore di quasi neo genitori e dall’entusiasmo per aver intercettato il volo di quella giusta, non abbiamo considerato un piccolo, insignificante particolare: quella cicogna era troppo grande per atterrare davanti alla porta del nostro condominio ed è stata quindi costretta a sostare sulla terrazza del salotto in una posizione comunque ben visibile da chi alzasse gli occhi dal marciapiede. E anche lei, in realtà, si è trovata a proprio agio in questa sistemazione, tanto da rimanerci fino a pochi giorni fa quando, poveretta, ha preso la via del sacco dell’immondizia. Questo salto indegno, che potrebbe portarci a problemi con le locali sezioni del Wwf, è stato reso necessario dalle condizioni in cui la poverina si era ridotta assorbendo le intemperie di questi sette mesi, intemperie che l’hanno resa, di fatto, inutilizzabile a meno di un’approfondita opera di disinfestazione (e disinfezione). Il motivo? Mentre la mamma smacchia i vestitini della Princi, le dà da mangiare, prepara da mangiare, la lava, si lava e fa lavatrici, pulisce e stende quelle lavatrici, fa i letti, mette in ordine, archivia i vestiti ormai non più utilizzabili da questo esserino che cresce smisuratamente, Lui – per fare un qualsiasi lavoro che poi si rivela coas da cinque minuti – ha bisogno dei suoi tempi. E così l’unica ragione per cui la cicogna ha compiuto il suo ultimo volo (ma penso che al momento sia semplicemente atterrata in quella terra di nessuno che è il garage) è stata una minaccia: «Guarda che se il terrazzo è in queste condizioni non inviti il tuo amico a cena». Ricatto puerile ma di efficacia immediata. E pensare che per affinare questi espedienti credevo avrei avuto ancora qualche anno di tempo.

mercoledì 12 settembre 2012

B come...


B come baci: ci sono giorni in cui, scendendo le scale con la Princi in braccio, le schiocco un bacio a ogni pianerottolo, altri in cui la sollevo in aria (e questo fin quando il suo peso me lo consentirà, quindi ancora per poco) per riportarla all’altezza del mio viso al ritmo di “uno, due, bacio”. Certo: ogni scarrafone è bello a mamma sua e, come per ogni bimbo, anche a papà, a nonna, a zia e a tutti i parenti suoi; ed è altrettanto vero che certe guanciotte sugose e rosate i baci sembrano proprio reclamarli a gran voce: proprio come le sue.
B come bagnetto: ritardato dal lungo percorso di caduta dell’ombelico (rallentato dalla mia impressionabilità), a circa due settimane Sofia ha sperimentato il bagnetto. Una catastrofe: le avessimo strappato uno a uno i (pochi) capelli che ha sulla testa le avremmo fatto un torto minore. E così è stato per un paio di volte, quelle necessarie cioè a capire (perché i neo genitori, si sa, son un po’ turdi) che non erano giuste la temperatura dell’acqua né quella della stanza spingendo il papi a fornirci di un curioso esemplare della specie pesce termometro suggerendogli inoltre di azionare la stufetta elettrica a ogni bagnetto. Risultato: la paciughina si è lentamente abituata a questo rito di pulizia mentre nella doccia sono spuntate le palme da cocco e, non potendo spogliarsi della loro pelliccia, i gatti hanno disertato la lettiera ogni qual volta affacciandosi alla porta del bagno ci vedevano toglierci progressivamente strati di vestiti fino a rimanere in costume nel pieno dell’inverno. Complice poi l’inizio del corso di acquaticità (cominciato il 9 giugno) Sofi ora scambia la sua vaschetta per una piscina olimpionica e lo stesso accade con il lavandino che, nonostante sembri costruito su misura per le sue attuali e quindi assai temporanee dimensioni, lei pretende di utilizzare sguazzandoci con mani e piedi al punto da lavare anche i felini, finalmente riappropriatesi di questo spazio.
B come batterie: nessuno lo dice, ma la voce di spesa senz’altro più pesante all’arrivo di un fagottino è quella delle batterie. Pupazzetti e luci psichedeliche da posizionare sul lettino per augurare la buonanotte, sdraiette multifunzione con effetto vibrazione che fa sfigurare pure la pedana sciogligrasso della palestra, giochini che snocciolano filastrocche e canzoncine che poi ti ritrovi a cantare al posto della hit del momento: tutto questo ambaradan ha bisogno di una quantità industriale di batterie. E il ricorso a quelle ricaricabili risolve il problema solo fino all’arrivo della bolletta dell’elettricità: ma a quel punto ti sei forse già disfatto del carillon che tanto facilmente addormenta il pargolo e che, in ottemperanza alla legge di Murphy, ti ha lasciato in panne proprio nel più acuto momento del bisogno dilungandosi in un lamento riecheggiante un grammofono senza manovella.
B come bottoni: altro segreto che tutti tengono per sé riguarda i vestitini anzi, soprattutto le tutine dei primi mesi. Quei mesi cioè in cui il neo genitore ha una paura tale a maneggiare il fagottino che lo lascerebbe con il pannolino intriso di qualsiasi “prodotto” pur di non toccarlo nel timore di provocargli un trauma multiplo solo adagiandolo sul fasciatoio. A parte il fatto che a molte di queste tutine dovrebbero essere allegate le istruzioni indicanti almeno il sotto e il sopra o il diritto e il rovescio, vogliamo parlare della durezza e del numero di bottoni da sganciare e agganciare ogni volta? E’ un’operazione che, nella migliore delle ipotesi, richiede tutto il tempo tra un cambio e l’altro. A parte questo, infinite volte io e Lui ci siamo trovati a guardarci perplessi chiedendoci da dove si dovesse infilare, come farci passare il testone della Princi, le gambe o le braccia senza provocarle delle distorsioni e da che punto si dovesse iniziare a chiudere la tutina, sperando poi che al momento di sbottonarla non si incappasse nei bottoncini a clip che avrebbero richiesto l’intervento di Maciste per essere staccati: con il risultato che, più di una volta, abbiamo lasciato un vistoso buco sul vestitino quasi intonso.
B come borse: è uno dei modi di dire più abusati ma pure più autentici del mondo: nella bora di una donna ci puoi trovare il mondo. Ma che dire allora di quella di una mamma? Anzi: quelle. A parte il fatto che il rischio più probabile è quello di tirar fuori un biberon o un termometro invece della penna che ti serve per firmare il nuovo e agognato contratto di lavoro, da quando c’è la Princi più che la famigerata Mary Poppins mi sono trasformata in Babbo Natale. Ogni volta che esco di casa devo preventivare un’ora di “revisione del materiale” per assicurarmi che nella Princi-bag ci sia tutto il necessario per affrontare ogni tipo di crisi: ciuccio (che in realtà è un pro-forma che serve a me per tranquillizzarmi dato che lei non l’ha mai usato: ma è una di quelle cose che, se non ce l’hai, poi magari ti serve: e così maledici i gesti che ti hanno portato ed escluderlo dal bagaglio a mano); biberon con acqua; bavaglini; salviette umidificate; pannolini in abbondanza, cambi di vestito, magari anche di varie stagioni perché se esci leggera poi fuori tira la bora mentre se esci senza cappello perché ti pare nuvoloso quando ti ritrovi sotto il sole a quaranta gradi capisci che non hai un avvenire come meteorologo; biscottini; frutta grattugiata; yogurt; magari anche la minestrina, se sei fuori a pranzo o cena. Beh, mi pare basti: anzi, no, dimenticavo i giochini… per ricordarsi di portare tutto questo passa qualche mese in cui, ovviamente, i bisogni della pallina si modificano e chi ti sta intorno ti fa di volta in volta notare cos’hai dimenticato sottintendendo che una mamma accorta non se ne sarebbe scordata. Si deve essere poi fortunati e far entrare questo piccolo universo in una sola borsa, solitamente quella in pendant con la carrozzina/passeggino: altrimenti ti ritrovi a uscire di casa con la borsa omologata più borsa a mano di carta o stoffa più, ovviamente, la tua borsa da passeggio a cui, nel mio caso, talvolta unisco la borsa con il computer se mi fermo per qualche ora dalla mamma-nonna. Insomma: quando esco di casa mi faccio pena da sola, con la Princi in braccio, la sua borsa a tracolla, il computer sulla spalla, la mia borsa nell’altra mano insieme a quella con le pappe e le chiavi di casa più quelle dell’auto in bocca. E devo scendere due rampe di scale: proprio come Babbo Natale. Il ridicolo però lo sfioriamo quando usciamo in tre: io con quattro borse variamente caricate addosso stile mulo da soma, Lui che scende saltellando con solo la Princi in braccio chiedendomi di chiudere la porta perché altrimenti non ce la fa. E, a volte, mi ha pure chiesto – visto che sarei uscita prima di loro per destinazione diversa – se potevo già caricargli in auto la Princi-bag perché sennò non sarebbe riuscito a portare anche la bimba. Inutile ribadirlo: le donne, e le mamme in particolare, sono multitasking, gli uomini (e quindi pure i papà) è già tanto che ci siano e si ricordino di scendere il bambino quando vogliono portarlo al parco giochi.
 

giovedì 6 settembre 2012

A come...



A come amore: oltre a essere l’incipit della demenziale canzone de “I soliti idioti” (che, ce ne siamo resi conto molto presto, è stata ed è ancora in grado di placarla e addirittura farla ridere nei momenti di crisi) amore è senza dubbio la prima parola che mi viene in mente pensando a lei. Si è sviluppato appena l’ho vista, tutta accartocciata in un’espressione aggrottata della serie: «potevate lasciarmi dov’ero?» si è sviluppato più tardi? o appena ho saputo del suo arrivo? Chissà: il fatto che non lo ricordi mi pare già positivo. Certo è che anche nei momenti più duri, quando la frequenza delle levatacce notturne (che recentemente hanno avuto un revival per il gran caldo) faceva sentire tutta la sua pesantezza, beh neppure in quelle occasioni ho smesso di guardare la Princi completamente avvolta da un sentimento forte e indescrivibile, quello stesso che mi fa passare ad
A come assenza: il tanto desiderato ritorno al lavoro (anzi: inizio di un lavoro ex novo), oltre a essere accompagnato dalle ansie per la sua gestione si è presto trasformato in sensi di colpa. Inizialmente, devo ammetterlo a costo di essere marchiata con “WM” (che non sta per Wonder Mum ma per Worst Mum), i sensi di colpa erano innescati dal fatto che non mi sentissi in colpa ad allontanarmi da lei per un po’, anzi: il lavoro mi è piovuto addosso nel (per me) faticosissimo (a livello spirituale) periodo dello svezzamento, un momento che mi ha messo a dura prova per il timore di sbagliare in qualsiasi modo procedessi e qualsiasi cosa le proponessi. Ora, invece, tornati dalle vacanze, più che di senso di colpa parlerei di vera e propria “sindrome dell’abbandono”: non so se valga anche per la Princi (ma credo di sì, a giudicare dal fatto che ha preso a ciucciarmi la spalla ogni volta che la prendo in braccio e frignotta quando la deposito sul fasciatoio), ma per me staccarmi dai suoi occhioni sorridenti e interrogativi (alla Arnold: «dove diavolo stai andando??»).. beh, ogni volta è una tortura, certo non dettata dal timore che stia male in mia assenza poiché sette mesi fa (anzi: se ci mettiamo anche i nove della gravidanza fanno sedici) abbiamo assunto tre bambinaie d’eccezione che paiono divertirsi più di lei e non vedere l’ora che io mi tolga di torno. E’ un’assenza fisica, legata al desiderio di stringerla nella consapevolezza che questo straordinario periodo, condito dalla sua infinita, impenetrabile e imperturbabile felicità, purtroppo passerà; è un’assenza emotiva, legata a doppio filo dalla gelosia di voler stare sempre con lei per coglierne ogni sorriso, gorgheggio, per essere presente a ogni sua “prima volta”. Terrificante: perché credo che questo finirà solo quando conosceremo il Princi-boy e smetterò di voler essere informata sulle sue successive tappe di crescita.
A come allattamento: nuova confessione: non sono una fan dell’allattamento e ho detestato chi mi diceva «brava» perché avevo latte. Oltre a farmi sentire una mucca, simili “complimenti” mi infastidivano perché ho sempre pensato che a) non fosse un mio merito ma qualcosa che è successo indipendentemente dalla mia volontà; b) che la bravura di una mamma non si misuri dal fatto di essere un dispenser (che è esattamente il modo in cui ti fanno sentire gli altri, il pargolo in primis); c) che chi non ha il latte cosa si sentiva dire? cattiva mamma? Prima di avere la Princi pensavo di non voler neppure provare ad “attaccarla”, termine che continua a farmi venire in mente una sanguisughe; il motivo? Il tabù nei confronti del mio corpo, per cui pensavo che non avrei mai e poi mai allattato in pubblico, inteso come chiunque al di fuori di Lui; ma pure l’imbarazzo che ho sempre provato trovandomi di fronte a qualche mamma che allattava. In ospedale però non ho avuto scelta: le puericultrici non hanno neppure chiesto se volessi o meno procedere senza neppure spiegarmi come o quando farlo. E così è iniziata quest’avventura, fatta di calcoli per capire quanta autonomia avessi fra una pappa e l’altra, di dolore per il precoce insorgere di una candida (con annesso mughetto per la Princi) che mi ha accompagnata in tutti questi mesi e del rapido dissolvimento di qualsiasi pudore a spogliarsi in pubblico. Cosa mi ha convinta? Lui, dicendomi che se non l’avessi fatto avrei dovuto rinunciare a uscire. Ora, però, da qualche giorno la Princi è entrata in modalità autonomia: le riserve stavano esaurendosi, lei frignava a dismisura, i reggiseni da allattamento cominciavano a largheggiare e quindi siamo passati al bibe. Che, con buona pace di chi mi dice: «è peccato, prova ad attaccarla ancora se e quando ne hai», ci ha permesso di dormire due notti quasi intere.

A come armonia: quella che la Princi, con il suo solo annunciarsi, ha moltiplicato nelle nostre famiglie. Intensificando rapporti, disseppellendone alcuni, migliorandone molti. Non tutti, ovviamente: ma non ci si può aspettare miracoli a trecentosessanta gradi.

A come aspirapolvere: prima del suo arrivo mi interrogavo su come e quando sarei riuscita a far le pulizie. Presto risolto: a pochi giorni dal suo arrivo ho scoperto che la Princi si lascia cullare da alcuni rumori, in primis quello dell’aspirapolvere. Che, quindi, è stato subito elevato al grado di ninna nanna ad honorem seguito a ruota dal phon e, talvolta, dal tritatutto.
A come amici: è il punto da cui il blog è cominciato. Gli amici hanno inondato la stanza d’ospedale sfidando il gelo che ha accompagnato l’allunaggio; gli amici sono stati piacevolmente convogliati in turni di visita una volta tornate a casa; gli amici hanno intasato la sim con sms e qualche telefonata di benvenuta. Ma gli amici talvolta si sono dissolti: forse troppo presi dalle loro vite per ricordarsi la promessa che «tutto sarà come prima, anzi ci vedremo di più», forse spaventati dall’idea di dover rovinarsi una serata libera con piagnistei o tette all’aria, forse convinti che siamo sempre troppo stanchi per vederli, forse… Mille le ragioni, mille gli interrogativi che ci pongono certe assenze, pesanti come l’esaurirsi di amicizie di sempre, quelle che sei sicuro dureranno tutta la vita e che lasciano un vuoto incapace di essere colmato dai periodici sogni in cui rivedi quelle persone al tuo fianco: pronte a sorriderti e sostenerti come avevano fatto finora.