martedì 27 novembre 2012

Hannibal vs. Rocky


Devo scrivere, altrimenti se ci penso scoppio a piangere. Così come se mi fermo a guardarla, soprattutto ora che dorme ed è più indifesa che mai.

Tra tutti gli incidenti a cui avrei pensato, questo era proprio in fondo alla lista; anzi: nella lista proprio non era contemplato. Ma va da sé: e a questo proposito si potrebbe sciorinare un bel rosario di luoghi comuni tipo «i bambini sono imprevedibili», «bisogna avere cento occhi», o il fantasmagorico «ma son bambini». Già, però…
Però stamattina arrivo in ludoteca, tutta pimpante perché la Princi è insolitamente (per questo periodo) tranquilla: svegliata alle 7, mi ha permesso di sistemare la casa, ha fatto merenda, un pisolo mentre mi preparavo. Insomma: un gioiellino.
 
Ammasso i nostri giubbotti sulla montagna di altre giacche che già occupano il mini-guardaroba, sistemo le borse in un angolo con la complicità di un’educatrice che intrattiene la Princi mentre mi infilo i calzettoni con Snoopy. Prelevo il fagotto e la appoggio a terra per farla camminare lasciandomi trasportare da lei verso ciò che più la attrae.

Si distrae guardando un collega che gioca a pallone con il nonno e mi distraggo anche io pensando che quello che sta correndo nella sua direzione, le braccia aperte, voglia semplicemente abbracciarla.

Abbracciarla, non strozzarla. Abbracciarla, non mangiarla.

Quando vedo che la morsa si prolunga cerco di aprire le braccia a ganascia e, nel frattempo, si precipita anche la mamma dell’amante irruento. Troppo tardi: credo lei sapesse cosa stava succedendo, io purtroppo no.
 
Da dietro la Princi non sono riuscita a vedere che il biondino non era propriamente un dolce principe azzurro ma piuttosto un piccolo Hannibal Lecter che al posto di schioccare un bacio sulla paffuta guanciotta della Pallina l’ha assaporata con un bel morso sul labbro. Come dire: non stiamo a perder tempo in smancerie.
 
 
Un attimo e in ludoteca sembrava essere scattato l’allarme antisismico. Con la Princi in braccio e urlante non sapevo (urlante a mia volta) dove girarmi finchè non mi ha “presa” l’educatrice di poco prima per portarmi in una stanzetta per sciacquarla e disinfettarla. Non fosse stato per lei sarei corsa dal pediatra, al pronto soccorso: soprattutto, me ne sarei andata, e in lacrime. Ma, a pensarci, non sarebbe stata una soluzione: come quando cadi dalla bicicletta e devi tornar subito in sella.
Così, appena ci siamo riprese (io in particolare), abbiamo cominciato a giocare, ma con fare molto circospetto: ad ogni bimbo/a che si avvicinava oltre la soglia di sicurezza, la Princi faceva scattare l’allarme antimorso. Me la sono stretta come non mai, e lei si abbandonava sulla mia spalla in cerca di protezione: una protezione che non ho saputo garantirle.

Per la serie: una mamma lo sa.

Una mamma lo sa che dovrebbe tenere gli altri bambini sott’occhio, che un abbraccio troppo prolungato può essere un morso, … invece io non l’ho saputo e non ho saputo difenderla.
La guardo: con il bozzo sulla testa (risultato di una lap dance poco riuscita intorno alla gamba del tavolo) e il labbrotto tumefatto sembra Rocky Balboa in cima alla scalinata; ma da lì, lei non urla «Adriana» ma chiama mamma. E io mi sento uno straccio: sento che avrei dovuto prevedere, che non ho saputo difenderla, che ora (fra l’altro) mi sentirò addosso il giudizio di nonne e parenti vari.

Oggi, che finisco di scrivere, è un nuovo giorno.
Come accade sempre quando si fa male, la Princi ha superato subito il dolore mentre io continuo a sentire un tremito interiore che non si placa. Sono avvilita, ancora sconvolta e piena di dubbi tra cui uno che da tempo mi pongo:  qual è il limite tra l’avere fiducia negli altri e pensare che possano farti del male? E penso pure a quando tornerò in ludoteca: non voglio vestire i panni dell’untore, ma a chi già ieri mi chiedeva se fosse caduta rispondevo sottovoce che no, era stata morsa: perché seppure non ritengo giusto ghettizzare nessuno, penso anche che sia giusto per gli altri genitori sapere ed evitare una piccola tragedia.
 
 
Tragedia che, come dicevo, la Princi sembra aver metabolizzato già poche ore dopo: a parte una buona dose di mammite e babbite, è quella di sempre, pronta a spalancare i suoi occhioni per vedere meglio le decorazioni natalizie di cui ho iniziato a cospargere la casa, a ridere a crepapelle se le si mangia il panciotto e a sorridere teneramente facendo naso-naso.

mercoledì 21 novembre 2012

il dentino ballerino


Che mamma degenere! Dopo averle rotto l’anima e averla rotta anche agli altri, alla prima avvisaglia di dentino riesco solo a comunicarlo a parenti e amici stretti con un sms striminzito e un altrettanto striminzita frase sul mio profilo facebook!

Povera Princi!

A mio discarico posso dire che questa settimana mi è piovuto addosso un corso di formazione tutte le mattine in cui non lavoravo; che ho comunque dovuto anche lavorare; che ho comunque cercato di mettere insieme almeno la cena, perché al pranzo ci hanno spesso pensato le nonne; che ho cercato, finora con poco successo, di capire come funzioni la nuova lavasciuga; che tento quotidianamente di non far pulire il pavimento alla Princi formato Swiffer e quindi almeno una passata di aspirapolvere mi tocca; che…; che…; che…

Che sono stanca, accidenti.

Ma, per quanto lo sia, sono riuscita ad accorgermi per prima del dentino.
 
 
Galeotto fu il patè di frutta al mirtillo e la Princi che l’ha originariamente rifiutato.

Abituata ai frullati più o meno buoni ma sempre casalinghi che le propino quotidianamente, la Princi ha infatti snobbato alla merenda mattutina la purea di frutta acquistata con tanto amore qualche giorno prima al supermercato con l’idea che, in effetti, i mirtilli a casa nostra sono entrati solo una volta per infilarsi nel congelatore e scongelarsi poi miseramente sul lavello, dove hanno lasciato una scia color mirtillo ancora visibile.

Lunedì 19 novembre, ora di cena.

Dopo aver sbocconcellato mezzo filetto di merluzzo e qualche pisello (già una conquista per chi non ha ancora capito che la cena equivale, come piatti potenzialmente edibili, al pranzo) e dopo aver brandito come una spada un grissino in seguito abbandonato mezzo sleccazzato, al momento della frutta provo a riproporle la scatolina al mirtillo.
Miracolo: chissà per quale strana ragione, ciò che a merenda l’aveva schifata ora le piace,  e pure tanto.
Fatalità: per questo tentativo anziché usare il solito cucchiaino di plastica ne ho preso uno di metallo, convinta che tanto dopo il primo boccone avrebbe chiuso la saracinesca.
E invece no: la serranda rimane alzata ed è lo stesso container a protendersi verso il muletto elevatore per il carico. Ma, tra un carico e l’altro, il cucchiaino indugia tra le ante del portellone e comincio a sentire una strana resistenza, un lieve rumore da struscio con superficie diversa da quella morbida della gengiva.
 
«Oh, Oh» dico a Lui, del tutto indifferente all’operazione di carico perché totalmente assorbito dai vampiri/angeli/demoni e chissà che altro di Supernatural. Infatti, si gira un minuto e dieci cadaveri dopo.
«Mmh?!».
È il massimo che si può ottenere.
«Mi sa che sta spuntando un dentino…»
«…»
Approfitto di un attimo di distrazione per infilare il mignolo nell’hangar rimasto socchiuso.
«Sì, sì! Si sente qualcosa! Brava Princi!! Lo dicevo io che li avresti messi senza farcelo capire!! Apriamo lo spumante» cosa quest’ultima che, quando l’ho raccontata alla mamma-nonna si è ribaltata dal ridere.

Lui ha cominciato a realizzare alla fine dell’episodio quando ha cercato di imitare le mosse dei vampiri per potersi sincerare anche lui del dentino.

Ma niente da fare: giustamente, dopo tanta attesa, la Princi è gelosa di quella zigrinatura che soltanto oggi si è resa più visibile. Appena qualcuno le si avvicina per sentire la novità lei mostra la lingua, come a dire: «Vi ho fregati, è solo mio!!».

Unica eccezione la fa con la mamma: che in questi giorni di stanchezza infinita può fortunatamente contare sulle sue risate e i suoi sorrisoni, ora ancora più brillanti.

giovedì 15 novembre 2012

crisi che va, crisi che viene


Oggi avrei voluto scrivere della crisi e non certo di quella economico – politico – sociale di cui sono quotidianamente infarciti i telegiornali: tutti ne hanno le tasche piene e, a dire il vero, non saprei cosa dirne dato che io, il telegiornale, purtroppo (o forse per fortuna) non lo vedo da parecchio. Vuoi perché l’ora di cena è monopolizzata dalla Princi con capricci, pappe e inseguimenti dei gatti sotto il tavolo (dove, ormai, non passa più), vuoi perché da qualche tempo Lui ha deciso che, per rilassarsi, deve sottoporci tutti quanti alla visione di Supernatural: così, se a suon di cadaveri, vampiri e arcangeli omicidi la Princi ha gli incubi notturni sappiamo chi ringraziare.

Avrei voluto parlare della crisi, dunque: quella mia personale che, ciclicamente, si rafforza, mi strema e assieme a me strema anche chi mi sta attorno. E sarà forse per questo che quando avrei voluto dedicare una giornata intera alla Pallina lei ha pensato bene di far esplodere una frigna da paura tanto che - sinceramente – ho ringraziato il pittore che mi ha chiesto con urgenza di vedere le sue opere per poterlo presentare, essendo così costretta a mollare il piccolo piagnisteo alla mamma-nonna per due orette. Però poi la frigna ha ripreso, più intensa che mai.
 

La crisi, dicevo. Avrei voluto scrivere ciò che mi passa nella mente e nel cuore in questi giorni: l’arrabbiatura (con chi poi chissà) perché in queste ultime settimane mi sembra di lavorare troppo; l’insoddisfazione per non aver raggiunto alcun risultato lavorativo pari a quelle aspettative che credevo fossero mie ma che, riflettendo anche con Lui, chissà di chi sono (o erano); il senso di colpa perché in oltre un mese dal momento in cui li ho comprati sono riuscita a leggere solamente trenta pagine dei voluminosi testi per il concorso cui mi sono iscritta; etc. etc. etc.
 
La crisi, appunto. La crisi è passata quando, oggi pomeriggio, è entrata in galleria una coppia di persone che, contrariamente a quanto fa la maggior parte dei visitatori, si è soffermata a lungo in ogni sala. Al momento di uscire si sono fermati per uno scambio di battute sull’arte contemporanea: «Sa, sono un pittore» dice lui da sotto una barba bianca e curata. Stranamente, forse presentendo qualcosa, ho timidamente domandato se fossero della zona e, quando mi hanno detto da dove venissero «Scusi se mi permetto, ma posso chiederle il suo nome?». La risposta è stata quasi ovvia ma al tempo stesso folgorante: in un momento mi son tornati alla memoria i corridoi della struttura di riabilitazione in cui la Rossa andava esclusivamente per partecipare alle sue lezioni di pittura, il corridoio di casa della mamma-nonna dove è appeso il suo ritratto schizzato da una più anziana degente, il ricordo del momento in cui il nonno era andato a cercarlo per chiedergli un’opera da dedicarle quando già se n’era andata. Di colpo, mi sarei messa a piangere: poco professionalmente, dietro al bancone del museo. Di colpo, sarei balzata oltre al bancone per abbracciarlo quando lui mi ha chiesto dei dettagli per cercare di ricordare chi fosse e se n’è subito ricordato, battendo il pugno sul bancone, arrossando e abbassando gli occhi. Ringraziandomi poi, mentre usciva, per avergli ricordato una persona a cui teneva e al cui ricordo tiene.

La crisi, quindi. C’era e c’è ancora: ma adesso è stata temporaneamente sostituita da un forte, indicibile magone.

sabato 10 novembre 2012

bimbe che arrivano, bimbe che restano


In questi giorni, risistemando il blog e rileggendo i post di un anno fa, mi è sembrato di compiere un tuffo nel passato: in un passato remoto, in una vita precedente. Una vita in cui eravamo in due e ci sembrava che bastassimo l’uno all’altra; una vita in cui se decidevi di rimanere fuori potevi farlo senza dover passare in rassegna il contenuto della mitica borsa viola che ora ci sta più azzeccata della fede nuziale.

Una vita che a suo modo era completa ma ora lo è di più.

Sembra passato un secolo da quando, più o meno un anno fa, andavo in cerca di pigiami per me, ero preoccupata di non aver ancora preparato la borsa per l’ospedale, dovevo sorvegliare gli idraulici che ci stavano smontando e rimontando casa, cercavo la prima tutina per la Princi. Vedere ora le tutine per pulcini di un mese mi riempie di tenerezza e mi fa pensare a quel fagottino imbronciato che, ora, sorride quarantotto ore al giorno mostrando compiacente la sua bocca sdentata.
Meraviglia delle meraviglie.

Eppure…
Eppure continuo a essere una mamma a metà, presa dalle mie fisime, da un (a volte) malcelato desiderio di annullamento da cui purtroppo neanche i suoi baci-slinguazzata riescono a distogliermi. E così perdo tempo: perdo tempo a pensare a me e a come evitare pranzi, cene e i prossimi, minacciosissimi, pranzoni/cenoni delle feste da cui – Princi causa – non potremmo assolutamente esimerci. Anzi: a dirla tutta forse potrei pure svicolarla, nel senso che l’importante è che non manchi lei.
 
Vabbè. A parte questo, ultimamente sto lavorando moltissimo e mi dispiace. Lui mi direbbe che non sono mai contenta, che se non avessi lavorato avrei desiderato farlo e probabilmente è vero. Ma chi immaginava che procedendo i mesi sarebbe stato sempre più doloroso staccarsi da lei? Se ci si mette poi che, tornata a casa, dovrei pensare a rendere abitabile il nostro nido, magari ogni tanto preparare da mangiare… E se – ma questo rientra negli optional remoti – si pensa che sarebbe bene avere degli spazi per sé che, nella fattispecie, vorrei convertire in ingressi in palestra, che dovrei studiare per il concorso a cui mi sono iscritta, che vorrei dare un senso ai pellegrinaggi a Trieste fatti quando ero una navetta madre pubblicando qualcosa basato sulle ricerche fatte…
Insomma: di quante ore dovrebbe essere la giornata?
Ciò che vorrei veramente e prima di tutto sarebbe dedicare più tempo a lei e solo a lei, senza guardarla attraverso lo straccio per la polvere o mentre la trascino con il seggiolone per seguire me e l’aspirapolvere. Però, per avere la casa presentabile senza che a pulirla ci pensi lei con il suo sederino-swiffer, dovrei appaltare la Princi a qualche nonna, ben felice di prestarsi ma… sarebbe sempre tempo senza di lei.
 
E’ un gatto che si morde la coda, giusto per adattare i modi di dire a quei due fenomeni che condividono con noi lettone e lettino. Lo so: è una situazione vissuta da tutte le mamme, acrobate fra lavoro-casa-famiglia-desiderio di dimostrarsi perfette (e quindi: atletiche, ben curate, ben vestite, rilassate)-impegni sociali-e chissà che altro.
Da sfinimento, insomma. E infatti baratterei volentieri il periodo pranzoni/cenoni natalizi con un viaggio: magari di nuovo a Marsa Alam, dove siamo stati in due e vorrei tornare in tre. Per ora, con infiniti sensi di colpa, mi accontento di un viaggio sul lettino dell’estetista dove mi farò torturare per un’ora con una pulizia del viso.

In fondo, lavorare ha come pro la possibilità di farsi questi regali.

sabato 3 novembre 2012

zie che vengono, zie che vanno


Curiose, le coincidenze. Oggi è il compleanno di una nuova zia: una zia innamorata della sua prima nipotina, che non vede l’ora di giocare assieme a lei, che la riempie di pensieri e che è stata (ed è) tanto vicino alla sua mamma.
Domani ricorderò più intensamente di quanto non faccia tutti i giorni una zia che c’è stata per un periodo troppo breve. Un periodo sufficiente, è vero, per regalare alla sua nipotina - anche in questo caso la prima - il suo primissimo pelouche; per vergare vittoriosa sul diario la scritta SONO ZIA!! il giorno della sua nascita; per scrivere che, a differenza di tutti gli altri neonati, lei era più carina, se non altro non era paonazza; per insegnarle il demi pliè e le posizioni di danza appoggiate al bancone della cucina, sbarra casalinga da cui è partita la trafila di saggi e lezioni dimostrative propinate anche ai suoi amici, incalzati con un «È brava, vero, mia nipote?». Un  tempo sufficiente per sottoporla, piccola cavia, al test di Rorschach; per potarla al cinema a vedere “La storia infinita” interrogandosi se fosse meglio portarsi le caramelle o il chewing gum; sufficiente per infarcirla della stessa passione per Snoopy; per farle odiare e poi amare tutto ciò che, solo perché era suo, lei teneva a distanza, spaventata e attratta dal modello che lei ha sempre incarnato; sufficiente per farsi spingere sulla carrozzina lungo il Corso e per condividere un tè con pasticcini come fossero amiche o sorelle.
Un periodo, però, del tutto insufficiente per farsi conoscere veramente, per farle scoprire cosa ci fosse dietro il velo di tristezza che la accompagnava, per farle capire quanto fosse più importante vivere in prima persona piuttosto che farlo attraverso i libri, per insegnarle a truccarsi, vestirsi. E, viceversa, il tempo è stato del tutto insufficiente perché la nipotina, cresciuta, avesse il tempo di farle conoscere i film e le canzoni che le piacevano, di chiederle di accompagnarla a teatro o a vedere un balletto, di averla come appoggio nelle giornate di ozioso shopping, di farle vedere da lontano  - come faceva lei - i ragazzi che le piacevano, di vederla seduta dietro a lei alla discussione della tesi e del dottorato, di vederla seduta magari accanto a lei il giorno del matrimonio, di vederla entrare nella camera d’ospedale quando è arrivata la sua piccola.

Chissà. Tante cose sarebbero state diverse se ci fossi stata ancora: magari avrei compiuto altre scelte, sarei stata più forte e non avrei pagato lo scotto della mia debolezza. Magari sarei stata un’altra; ma, tutto sommato, potrei andar bene anche così, se solo mi accettassi o almeno mi sforzassi di farlo.

Mi manchi eppure sembra tu non ci sia mai stata: la Princi ti conoscerà dalle foto ammassate in casa della mamma-nonna e dalle mie parole. Tutto quello che non abbiamo potuto fare insieme spero che lei riesca a farlo, permettendomi di credere che lo stia facendo anche io con te.

Perché, per certe cose, una zia è indispensabile.

giovedì 1 novembre 2012

nove mesi di emozioni

 

E ieri la Princi ha compiuto nove mesi. Cavolo, il tempo vola: non passa giorno che non ricordi quanto era piccola nella culletta trasparente vicino a me, di come mi sentissi estranea a lei guardandola, dello sguardo felice di Lui quando me l’ha appoggiata al viso per la prima volta, dello sguardo felice della dottoressa C. mentre mi diceva «È bellissima».
Non sapevo dove mi avrebbe portato questo post: ho iniziato a scrivere senza aver le idee chiare di cosa dire. Ma, ora che ho iniziato a farlo, so bene cosa scrivere.
Partiamo dall’ultimo ricordo che ho qui riportato: la dottoressa C. che mi sorride.
Ma potrei anche dire l’ostetrica A. che parla affettuosa del mio pancino; l’ostetrica D. che accende la musica per accompagnarci nel corso preparto; l’ostetrica S. che improvvisa disegni dell’utero per spiegarci cosa sta succedendo al nostro corpo; l’ostetrica E. che risponde seria a Lui che sì, se ci sarà lei, al momento del parto potrà stare davanti e non alle mie spalle; l’infermiera che mi porta premurosa una tazza di tè; la puericultrice che, nel cuore della notte, mi salva dall’alluvione di cacchina santa prodotta senza freno da quella ranocchietta di neanche 3 chili sdraiata di fronte a me; la signora delle pulizie che, a ogni turno, si avvicina alla culletta minacciandomi affettuosamente di portarsi via la Princi, unico fiocco rosa in mezzo a sei maschietti; e, alla fine di quattro giorni densi di emozioni ma mai troppo lunghi per darmi l’impressione di essere pronta a spiccare il volo con il mio piccolo uccellino, l’ostetrica R. che mi chiede se mi sono trovata bene.
Devo essere sincera: in questi nove mesi ho cercato ogni pretesto per tornare nel Punto Nascita dove è atterrato il mio shuttle. I controlli della Princi quando eravamo in attesa del pediatra, la visita a quaranta giorni dal parto, l’amica neo mamma e quella che lo sta per diventare… avevo una paura folle al momento di lasciare l’ospedale con il mio fagottino rosa: paura di non farcela, di non essere all’altezza, ma soprattutto paura di lasciare quel nido protetto in cui mi sono sentita amata, accudita, presa per mano da (quasi) tutti i  medici, ostetriche, infermiere. Come se il neonato di cui prendersi cura non fosse la Princi ma io: perché non era nata solo una bimba ma, insieme a lei, una mamma. Anzi: con noi sono nate tante altre mamme, tutte impaurite, piene di dubbi, domande. Ma, tutte, accudite con uguale affetto, simpatia e, soprattutto, competenza. Ovvio: ci sono poi le eccezioni. Non fatti gravi, ma a ognuna è capitato un “neo” di fronte al quale, comunque, abbiamo poi riso assieme. Perché è nato anche questo: una conoscenza fra navicelle madri che, in alcuni casi, sta continuando.
 
Ecco: la battaglia che si sta combattendo, in modo sempre più agguerrito, per mantenere in vita il Punto Nascita in cui è atterrato il mio shuttle mi provoca una grande amarezza. Perché, come al solito, a pagare le conseguenze della crisi, di scelte politiche discutibili, e di chissà che altro c’è dietro sono sempre le persone, presenti e, in questo caso, future. Ma è anche una battaglia che mi ha fatto conoscere e vedere tante mamme agguerrite, pronte a schierarsi e scnedere in prima fila per mantenere qualcosa in cui credeono e a cui tengono.
 
 A poche ore dal parto e per tutti questi nove mesi ho pensato che vorrei essere mamma una seconda, magari chissà, pure una terza, …, ennesima volta: e l’ho pensato anche per potermi ri-immergere nel clima ovattato e rassicurante di quel reparto. Se dovessi cambiare aeroporto per il prossimo shuttle, …, beh, devo ammettere che mediterei bene se far iniziare un nuovo volo. Perché vorrei ritrovare e riprovare quello che ho trovato e provato la prima volta. Perché penso che ci siano altri modi per risparmiare e razionalizzare, non giocando sempre e comunque con la vita delle persone (e del personale) né con le rotte seguite dalle cicogne.