martedì 30 luglio 2013

gita della memoria, gita della scoperta


Stamattina sono andata a Udine.
Era una vita, anzi, una Princi fa che non ci andavo.
In centro, intendo dire; o meglio: in biblioteca. E allora mi sono portata la Pallina a ritirare i libri prenotati, quelli che dovrebbero servirmi per quel convengo nel quale non so ancora con precisione di cosa/chi parlerò.

È stata una sensazione strana.
La voglia di andarci era a mille. Poi, per strada, caricata la Princi in auto, non potevo far a meno di pensare che lei fosse lì, dietro di me, stretta al suo Snoopy e poi, a un certo punto, addormentata con la testa rovesciata all’indietro. Non potevo, insomma, fingere di essere da sola come è stato per tanto tempo.

Per tutto il tragitto, anche una volta arrivata, continuavano a saltarmi alla mente i ricordi delle volte in cui ci sono stata.
Udine: città a cui ho legato molte aspettative lavorative/professionali, spesso andate deluse.

E allora quando siamo arrivate sono andata dritta (beh, eufemismo visti i lavori in corso che hanno bloccato il traffico per venti minuti) a parcheggiare di fronte al museo in cui ho lavorato per sei mesi. Ora lì non c’è più niente: ma ho “rivisto” i colleghi, i visitatori che ascoltavano attenti le mie spiegazioni durante le visite guidate. E poi il bar dove andavo per il (costoso) tramezzino con la collega borsista; il ristorante in cui la direttrice mi ha offerto il pranzo in un caldo giorno d’estate; il panificio di quelle buonissime pastine che ci ha offerto uno studioso in visita e dove poi ho portato la mamma, a quel tempo ben lungi dal diventare mamma-nonna.

La sera in cui, al settimo cielo, ho percorso quella strada per partecipare al mio primo convegno, tremante ma felice, illudendomi che qualcosa di buono ne sarebbe nato e pensando che nonno sarebbe stato fiero di me se mi avesse visto (e sono certa l’abbia fatto). L’università, dove sono andata a iscrivermi al master di cui non sono riuscita a superare la selezione. L’austero ma – con le sue ali laterali simili a un abbraccio - accogliente palazzo nella cui gigantesca aula affrescata ho atteso tutto il pomeriggio il turno del colloquio di ammissione al dottorato: senza poi riuscire a farlo e dirottandomi quindi verso l’altro capo della regione. E poi quella volta in cui, già con il pancione, ho assistito alla conferenza al termine della quale hanno finalmente consegnato gli atti del convegno. A destra ho poi girato la volta in cui sono venuta per seguire le fasi di restauro del dipinto che ho catalogato per la mostra.

Il negozio dove ho ordinato le bomboniere della laurea e la volta in cui sono venuta a ritirarle -agitatissima- con Lui; l’ottico in cui ho scelto gli occhiali con cui mi sarei dovuta sentire meno a disagio; la biblioteca, dove ho passato tante giornate…

Credo che chi abbia incrociato gli sguardi mio e della Princi vi abbia letto la medesima espressione di stupore. Per lei in qualche modo era il “battesimo” di molti angoli di una città dove pure è già stata; per me era la prima volta in cui vedevo quei luoghi spingendo un passeggino. Tanto da non aver mai notato che per entrare nell’atrio della biblioteca ci sono cinque gradini da non poter praticare con passeggino abitato.

È stato come tornare in un posto da cui si è stati lontani tanto, troppo tempo: e in effetti due anni abbondanti devono essere trascorsi dalla mia ultima incursione “da studiosa”. E a questa riscoperta della città si è sovrapposto un inventario: una nuova gelateria, un’altra che ha chiuso, un concept store (e che sarà mai?) al posto di non ricordo cosa, il negozio degli abiti da sposa dei miei sogni paurosamente svuotato, la Upim con le serrande abbassate, nuovi bar, locali diversi.

E la voglia di tornare. A studiare e a visitare quella mostra prima che finisca, fermandosi magari a cena nel locale rilevato da chi ha curato il nostro pranzo di nozze.

Non so se e quanto alla Princi sia piaciuta questa gita fuori porta: certo è che, una volta salite in autonomia (per fortuna!) tutte le scale della biblioteca ha voluto esser presa in braccio, sedersi sul bancone e controllare il lavoro di chi era dall’altro lato per aiutarmi a riporre i libri nella borsa. Ha poi molto apprezzato la vetrina della libreria in cui mi piace sempre dare un’occhiata per illuminarsi di fronte all’astuccio dell’ape Maia, mostrando subito dopo il suo lato più femminile aiutandomi a scegliere il set di ombretti nella profumeria poco più avanti. E che dire del panino-cornetto che si è sbranata strada facendo?

Tante nuove cose da vedere, tanta aria di studio devono averla enormemente affaticata: appena entrata in auto è crollata di nuovo. E sulla strada del ritorno ho continuato a pensare alle volte in cui sono andata e tornata da Udine e a quanto fosse diversa allora la mia vita. O forse no: perché certe cose le posso fare tale e quali anche ora con la Princi.

giovedì 25 luglio 2013

finalmente ferie!! ferie?!?


Un mese? Più o meno è questo il tempo dall’ultimo post. In mezzo ci sono state quasi due settimane di ferie e, ora, il recupero post vacanza. Alias: immediato rientro al lavoro con circa una decina di lavatrici da caricare/stendere/stirare (in parte sono ancora lì che attendono di essere sistemate), novità inattese da gestire/accudire/decidere, novità non tanto nuove e positive con cui fare i conti perché a rimanere impassibile io, proprio, non ci riesco.

Comunque mi ero ripromessa una sorta di diario dettagliato delle ferie che ora - vuoi perché è passato del tempo, vuoi perché ci sono tante altre cose di cui raccontare - subirà un drastico ridimensionamento.

Alcune perle però non si possono trascurare, come il fatto che – partiti alle 4 di mattina per viaggiare con la Princi dormiente – soltanto a Bologna ci (mi) siamo (sono) resa conto che sul sedile posteriore era appoggiata una borsetta sigillata che assomigliava tanto al sacchetto dell’umido che avevo chiesto a lui di buttare nel cestino della strada, sotto casa. «Ma cosa vuoi che capisca alle quattro di mattina?».

I primi due giorni, poi, ci hanno fatto dubitare della bontà della vacanza: personalmente sarei stata intenzionata a riprendere l’auto e tornare a casa. Come saremmo sopravvissuti quattordici giorni con una Princi urlante? Perché questo ha fatto per le prime sere: strillare. Come se stesse male; come se la stessimo scuoiando; come quando ha avuto l’otite. La prima sera per evitare di farci cacciare dall’albergo abbiamo pensato di placarla passeggiando finchè non si fosse addormentata: Lui è uscito per ben due volte, la terza mi sono accodata pure io e siamo andati avanti – sotto gli occhi penosi del portiere notturno sbigottito di questo andirivieni – fino a mezzanotte inoltrata. Il giorno successivo la scena è stata anticipata al sonnellino pomeridiano, con replica serale. Ma in entrambi i casi, seppure a malincuore tanto nei confronti suoi, nostri e dei vicini di stanza, ho tenuto duro: un po’ per merito de “La donna cannone”, un po’ per quello di Santa Peppa (così ribattezzata da una delle tante nonne in vacanza da sola con i nipotini), un po’ grazie allo sciroppo calmante preso in farmacia, l’emergenza è rientrata. Emergenza che, fra l’altro, non abbiamo attribuito solo al cambio di clima e ambiente ma soprattutto agli effetti post vaccino morbillo-rosolia-parotite e meningococco: eravamo stati avvertiti che si sarebbero potuti manifestare dopo due settimane che, guarda la fortuna!, coincidevano proprio con la partenza per le ferie. Partenza che, tanto per dirla tutta, si è svolta con una febbre principesca a 39°.
 
Princi Pig in riva al mare
Il resto della vacanza si è svolto alla perfezione: una perfezione che, dallo scorso anno, fa i conti con qualche pianto/capriccio sulla spiaggia;  due lettini noleggiati inutilmente dato lo scarso tempo che ci abbiamo trascorso seduti (lasciamo stare sdraiati); un programma giornaliero di fitness comprendente passeggiate in riva al mare a riempire di “quacqua” il secchiello di Peppa Pig; passeggiate ai giochini con relativo sollevamento Princi e spinte al dondolo-coccodrillo che è risultato in assoluto il suo preferito; ripescaggi sotto gli ombrelloni dei vicini; corse e lotte serali per farsi tenere per mano mentre faceva scorribande nelle vie del centro; passeggiate pomeridiane chilometriche per tentare, quasi sempre invano, di addormentarla e collassare accanto a lei; zuffe per la doccia.

Sul trenino per Gradara
Ma a questa perfezione si sono aggiunti dei momenti davvero d’oro. Avere un bambino significa moltiplicare le occasioni di conoscenza e scambi di opinioni, in albergo e sulla spiaggia; significa essere sempre guardati con un sorriso, fortunatamente nel nostro caso di soddisfazione visto che, passati i primi due giorni di fuoco, la Princi è tornata in sé ed è stata occasione di lodi da parte di molti; significa sentirsi a un metro da terra quando ti dicono di aver fatto un ottimo lavoro come genitori; significa guardarla andare in giro completamente indifferente alla nostra presenza per scoprire il mondo e meravigliarsi di ogni più piccola cosa, dal trenino che attraversa la città alle fontane in cui si è schizzata da capo a piedi.


I momenti d’oro per la coppia e per il singolo sono invece sempre più risicati: e allora allunghi la doccia anche se ti sei già lavata e sciacquata tre volte i capelli; cerchi di non sentirti in colpa se hai mollato la pallina già da mezz’ora nelle braccia del papi; ti suddividi i momenti della giornata riuscendo così anche a leggere il quotidiano (cosa che a casa non succede mai) sotto il gazebo della spiaggia, e scopri così che le notizie di politica tanto noiose  non sono se ti permettono di avere cinque minuti in più per te; e ti chiedi per quale balzana idea Lui abbia infilato nella borsa del mare le carte per giocare (e battermi, come faceva sempre) a scala 40.
 
Sullo scivolo
 

Insomma: le vacanze non sono più le stesse. Meglio quelle di una volta? Quando rincorri la Princi sulla spiaggia, devi contenere i suoi urli sotto la doccia, devi arginare i suoi capricci perché vuol salire sulla giostrina…, per un attimo pensi di sì. Ma non sono né meglio né peggio: sono diverse. Perché, ora sì, siamo una famiglia.