A circa dieci giorni di distanza, mi stavo
chiedendo cosa sarebbe rimasto. Poi, mentre facevo i conti di fine mese, la Sua
voce ha risposto alla mia soddisfazione
per non aver toppato un’addizione: «Pensa
a quanti anni fa sono andato a scuola io!». Era la replica alla protesta di
uno di noi che, non ricordandosi qualcosa di storia o geografia, argomentava
che l’avevamo studiato l’anno precedente.
Sì, continuo a essere attraversata da ricordi,
immagini, fotogrammi di un tempo che non c’è più, che ora ho la certezza che
non sarà più. Vorrei essere in grado di raccontare a Lui, alla Princi, un po’ a
tutti cosa sono stati quegli anni ma so di non poterlo fare.
Perché il racconto non
ha odore: quello delle aule con i vecchi e
scricchiolanti parquet poi sostituiti da una più asettica pavimentazione
plastificata verde; quello degli astucci di Barbie e Poochie, che senz’altro
avevano un profumo diverso dalle Winx; quello delle merendine e dei panini con
la frittata scartati a ricreazione, ora sostituiti da più insipidi biscotti
zero grassi o da più rapidi crackers; quello dei quaderni con le foderine
colorate e degli unici, miseri due libri che servivano per imparare: quello di
lettura e il sussidiario: “occhi aperti”, si chiamava il nostro, e immaginarsi
le battute che questo scatenava; quello delle sue mentine, un must che l’ha
sempre accompagnato e che ricordiamo ogni volta che, a fine cena, con il conto
ci portano la ciotolina piena di piramidine verdi.
Il racconto non ha
rumore: quello del cortile dove si passava
la ricreazione giocando a bandierina, streghina streghetta, dove si prolungava
la ricreazione sfidandosi a calcio maschi contro femmine o dove succedevano
cose che poi venivano riportate nei pensierini da scomporre con l’analisi logica, tipo «Oggi in cortile A.
ha appeso l’ombrello al braccio»; quello dei corridoi, dove d’inverno si
giocava a prendersi trovando l’isola di salvezza spalmandosi sul muro; quello
delle aule dove risuonava la campanella che, a fine giornata, era doppia per
annunciare per primo l’arrivo del pulmino per chi abitava più lontano; dei
versi di “davanti a San Guido, declamata con voce incerta dopo un faticoso
pomeriggio per impararla a memoria (ma mai, da allora, dimenticata); e sempre
delle mentine, agitate nella tasca della giacca dentro la loro bustina di carta.
Il racconto non ha
tatto: i pantaloni invernali che
pungevano e che mi costringevano a mettere scatenando un prurito lungo tutte le
cinque ore di scuola; i maglioni di lana fatti a mano, più morbidi e più caldi
degli altri; i trucioli della gomma delle Replay mentre cerchi di toglierli dal
quaderno su cui sembrano restare appiccicati; la cartapesta e le confezioni delle uova usate
per costruire le maschere di Carnevale da appendere in classe.
Il racconto non potrà restituire l’emozione di vedere tornare indietro
il tuo diario, le pagine bianche e il lucchetto, per leggere cosa ti ha scritto
l’amica e che disegno ha fatto; non potrà restituire la concentrazione messa
nel cercare di capire cosa intendesse dire spiegandoci l’importanza di trovare
delle parole chiave capaci di riportare alla memoria quello che si è appena
letto, metodo di studio che ho usato anche all’università per la storia della
critica e la letteratura inglese; non potrà restituire la fibrillazione per le
recite fatte a Carnevale per differenziarsi dalla maggioranza; né il clima di
ansia sospesa che ha accompagnato la dettatura degli argomenti da portare
all’esame di quinta, diversi per ognuno di noi.
Immagini, immagini, immagini; ricordi, ricordi,
ricordi. Il passato.
Ma è tutto ciò che rimane?Per fortuna no.
Rimaniamo noi, che abbiamo avuto il privilegio di vivere quel mondo di
fiducia verso gli altri, di timore reverenziale e rispetto verso chi era più
adulto, di gioia scanzonata e di canzoni gioiose. Rimaniamo noi, che abbiamo
avuto il privilegio di essere guidati da una persona per cui istruzione ed
educazione andavano a braccetto anche se l’educazione non ci si aspettava che
venisse insegnata a scuola; una persona che ci ha capiti e coltivati nelle
nostre passioni e inclinazioni, che ci ha spronati nel rispetto delle singole
potenzialità e interessi senza catalogarli secondo una scala gerarchica che
privilegiasse qualcuna di queste; una persona che ci ha adottati con affetto e
severità equamente distribuiti; una persona che – e questa è la cosa che più mi
ha colpito la settimana scorsa – ha cucito una rete fra noi, a volte invisibile
ma resistente, al punto da riportarci lì, attorno a lui anche al momento della
sua partenza, per potergli dare il nostro ultimo “salutare e partire!” da
bravi, diligenti ma soprattutto affezionati soldatini. Che ancora si ritrovano,
dopo anni di lontananza condita da un comune senso di appartenenza, dalla
consapevolezza dell’esistenza di quel filo rimasto lì, sospeso, pronto a essere
rinfilato nell’ago per continuare a tessere una storia da cui non possiamo
prescindere.
Ma, come ho già scritto, è un intero mondo a essere tramontato. Anche se è solo con questa
partenza che ho avuto la percezione netta del mutamento prodotto dal tempo, del
passato che non torna e non tornerà più perché ormai noi siamo diversi, io sono
diversa: ed è duro da capire. Ultima di una lunga serie di partenze che hanno
riguardato persone a me anche molto più vicine, è solo con questa che mi sono
resa conto di come gli anni trascorrano e con essi le persone, le situazioni e
tutti siano in grado di procedere con il tempo.
Ma non io: per quanto mi riguarda, quando mi penso vedo ancora quella
bambina goffa con le codine nere e gli occhiali rossi. Mi vedo ancora nella mia
vecchia casa, vedo ancora la mia famiglia, le feste di quella volta, l’odore di
cioccolato che sempre mi accompagnava.
Ma non più: da tempo, ormai.Già…
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