giovedì 28 febbraio 2013

il passato, il presente








A circa dieci giorni di distanza, mi stavo chiedendo cosa sarebbe rimasto. Poi, mentre facevo i conti di fine mese, la Sua voce  ha risposto alla mia soddisfazione per non aver toppato un’addizione: «Pensa a quanti anni fa sono andato a scuola io!». Era la replica alla protesta di uno di noi che, non ricordandosi qualcosa di storia o geografia, argomentava che l’avevamo studiato l’anno precedente.
 
 
Sì, continuo a essere attraversata da ricordi, immagini, fotogrammi di un tempo che non c’è più, che ora ho la certezza che non sarà più. Vorrei essere in grado di raccontare a Lui, alla Princi, un po’ a tutti cosa sono stati quegli anni ma so di non poterlo fare.
Perché il racconto non ha odore: quello delle aule con i vecchi e scricchiolanti parquet poi sostituiti da una più asettica pavimentazione plastificata verde; quello degli astucci di Barbie e Poochie, che senz’altro avevano un profumo diverso dalle Winx; quello delle merendine e dei panini con la frittata scartati a ricreazione, ora sostituiti da più insipidi biscotti zero grassi o da più rapidi crackers; quello dei quaderni con le foderine colorate e degli unici, miseri due libri che servivano per imparare: quello di lettura e il sussidiario: “occhi aperti”, si chiamava il nostro, e immaginarsi le battute che questo scatenava; quello delle sue mentine, un must che l’ha sempre accompagnato e che ricordiamo ogni volta che, a fine cena, con il conto ci portano la ciotolina piena di piramidine verdi.
Il racconto non ha rumore: quello del cortile dove si passava la ricreazione giocando a bandierina, streghina streghetta, dove si prolungava la ricreazione sfidandosi a calcio maschi contro femmine o dove succedevano cose che poi venivano riportate nei pensierini da scomporre  con l’analisi logica, tipo «Oggi in cortile A. ha appeso l’ombrello al braccio»; quello dei corridoi, dove d’inverno si giocava a prendersi trovando l’isola di salvezza spalmandosi sul muro; quello delle aule dove risuonava la campanella che, a fine giornata, era doppia per annunciare per primo l’arrivo del pulmino per chi abitava più lontano; dei versi di “davanti a San Guido, declamata con voce incerta dopo un faticoso pomeriggio per impararla a memoria (ma mai, da allora, dimenticata); e sempre delle mentine, agitate nella tasca della giacca dentro la loro bustina di carta.
Il racconto non ha tatto: i pantaloni invernali che pungevano e che mi costringevano a mettere scatenando un prurito lungo tutte le cinque ore di scuola; i maglioni di lana fatti a mano, più morbidi e più caldi degli altri; i trucioli della gomma delle Replay mentre cerchi di toglierli dal quaderno su cui sembrano restare appiccicati;  la cartapesta e le confezioni delle uova usate per costruire le maschere di Carnevale da appendere in classe.
 
Il racconto non potrà restituire l’emozione di vedere tornare indietro il tuo diario, le pagine bianche e il lucchetto, per leggere cosa ti ha scritto l’amica e che disegno ha fatto; non potrà restituire la concentrazione messa nel cercare di capire cosa intendesse dire spiegandoci l’importanza di trovare delle parole chiave capaci di riportare alla memoria quello che si è appena letto, metodo di studio che ho usato anche all’università per la storia della critica e la letteratura inglese; non potrà restituire la fibrillazione per le recite fatte a Carnevale per differenziarsi dalla maggioranza; né il clima di ansia sospesa che ha accompagnato la dettatura degli argomenti da portare all’esame di quinta, diversi per ognuno di noi.

Immagini, immagini, immagini; ricordi, ricordi, ricordi. Il passato.
Ma è tutto ciò che rimane?
Per fortuna no.
Rimaniamo noi, che abbiamo avuto il privilegio di vivere quel mondo di fiducia verso gli altri, di timore reverenziale e rispetto verso chi era più adulto, di gioia scanzonata e di canzoni gioiose. Rimaniamo noi, che abbiamo avuto il privilegio di essere guidati da una persona per cui istruzione ed educazione andavano a braccetto anche se l’educazione non ci si aspettava che venisse insegnata a scuola; una persona che ci ha capiti e coltivati nelle nostre passioni e inclinazioni, che ci ha spronati nel rispetto delle singole potenzialità e interessi senza catalogarli secondo una scala gerarchica che privilegiasse qualcuna di queste; una persona che ci ha adottati con affetto e severità equamente distribuiti; una persona che – e questa è la cosa che più mi ha colpito la settimana scorsa – ha cucito una rete fra noi, a volte invisibile ma resistente, al punto da riportarci lì, attorno a lui anche al momento della sua partenza, per potergli dare il nostro ultimo “salutare e partire!” da bravi, diligenti ma soprattutto affezionati soldatini. Che ancora si ritrovano, dopo anni di lontananza condita da un comune senso di appartenenza, dalla consapevolezza dell’esistenza di quel filo rimasto lì, sospeso, pronto a essere rinfilato nell’ago per continuare a tessere una storia da cui non possiamo prescindere.

Ma, come ho già scritto, è un intero mondo a essere tramontato. Anche se è solo con questa partenza che ho avuto la percezione netta del mutamento prodotto dal tempo, del passato che non torna e non tornerà più perché ormai noi siamo diversi, io sono diversa: ed è duro da capire. Ultima di una lunga serie di partenze che hanno riguardato persone a me anche molto più vicine, è solo con questa che mi sono resa conto di come gli anni trascorrano e con essi le persone, le situazioni e tutti siano in grado di procedere con il tempo.
Ma non io: per quanto mi riguarda, quando mi penso vedo ancora quella bambina goffa con le codine nere e gli occhiali rossi. Mi vedo ancora nella mia vecchia casa, vedo ancora la mia famiglia, le feste di quella volta, l’odore di cioccolato che sempre mi accompagnava.
Ma non più: da tempo, ormai.
Già…

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