giovedì 20 maggio 2021

Super ricarica di super poteri

 

Avevo dimenticato il sapore metallico, amaro, che compare a mezz'ora dall'inizio del primo boccione e che mi sto portando dietro ancora adesso, a tre giorni dall'ultima goccia.

Avevo scordato anche le notti interrotte, in cui ti alzi dal letto dopo esserti rivoltato, ti stendi sul divano a leggere in attesa di sentire gli occhi appesantiti dalla stanchezza.

Quella stessa stanchezza che appare poco dopo essermi alzata dalla poltrona azzurro-grigia imbottita, ma che ho finto di non sentire, martedì scorso, perchè dopo due ore e mezza passate in solitudine, nell'ambulatorio in cui mi avevano sistemata, volevo vedere il sole, respirare, passeggiare per il centro di Udine dopo gli isolamenti fra covid e zona rossa che negli scorsi mesi mi avevano costretta a tante pareti chiuse.

Per cui, uscita dall'ospedale, ho iniziato a camminare verso la stazione. Mi sono riempita gli occhi di volti, persone finalmente sedute nei ristoranti, un minimo di leggerezza: fino all'ultimo tratto di strada, difficile da percorrere. Ammetto di aver consultato google nel timore di aver sbagliato percorso. Ero come un nomade nel deserto che vede l'oasi allontanarsi sempre più, un maratoneta a cui manca da percorrere “solo” il quarantesimo chilometro, quello più duro.

Un formicolio alla gamba, leggero ma costante; il silenzio che dall'alluce sembra stia avvolgendo tutta la parte anteriore del piede. Piccole cose che ho valutato per più giorni, finchè anche Lui non si è accorto che camminavo in modo diverso dal solito. Ancora adesso penso che forse non fosse necessario sottopormi a questi cinque giorni di cortisone, magari ho esagerato, sono stata troppo frettolosa.

Eccolo, uno dei problemi della sclerosi: insinuarti il dubbio. Le visite si basano su sfioramenti di gambe e braccia: «Sente di più a destra o a sinistra? Sente una gamba più pesante dell'altra?». A volte è difficile rispondere, così come è complicato capire se quella sensazione che percepisci sia un sintomo da segnalare o meno. Ma dopo qualche giorno ho pensato che il formicolio non fosse normale, non è qualcosa che dovrei sentire o, perlomeno, è qualcosa che nell'altra gamba non c'è.

La conferma è venuta dalla visita, immediata: prima di portare il nostro Snoopy ad addormentarsi (sì: in questo periodo condito di isolamenti, covid, vaccini, nuova quarantena e dad, non ci siamo fatti mancare nulla) ho chiamato il day hospital, sono stata richiamata un paio di ore dopo dalla neurologa e alle 14.30 ero in reparto.

La mattina dopo si comincia: prima un tampone, poi le analisi del sangue e via di boccione.

Sono preoccupata?

Sì: chi andrà a prendere e portare le bambine a scuola oggi e nei prossimi giorni, come vivranno loro questa “novità”, come riuscirò a star loro vicina se la stanchezza sarà eccessiva?

Quel martedì, così come nei giorni seguenti, la mente si muove per concepire tutti gli incastri possibili per la gestione della quotidianità. Il giorno successivo vado e torno da sola in treno, stavolta però il tragitto da e per la stazione è in autobus.

Poi mi rendo conto che invece devo forzatamente fare ciò che non vorrei: chiedere aiuto, disturbare. Per farmi accompagnare e tornare indietro, per dare un minimo di vivibilità alla casa.

E mi sento in colpa, terribilmente in colpa quando, giovedì, mi concedo il lusso di essere figlia anziché mamma: e allora indugio sul racconto dei tre buchi prima di trovare la vena giusta, della stanchezza.


Intanto le bimbe ascoltano e si preoccupano. La sera, piangono. Ho sbagliato: devo ricordarmelo che non posso permettermi di mostrare troppa stanchezza, troppo voltastomaco, troppo mal di testa e che dovrei coprire quei lividi sulle braccia perchè devo pensare a quanto ci soffrono.

Ci soffrono al punto che «Non dai un bacio a mamma? Non mi saluti?».

«Ho paura di farti male».

Una fitta, secca e profonda al cuore. E allora per esorcizzare queste paure le bende si riempiono di scritte, le mani di “tatuaggi”, fino al biglietto con cui, l'ultimo giorno, hanno accompagnato i muffin che abbiamo sfornato in quantità industriali tutta la domenica pomeriggio. Infornavo e mi appoggiavo al bancone. Infornavo ed ero orgogliosa di queste piccole donne coraggiose. Infornavo e pensavo: domani spero di poterle andare a prendere a scuola. Così ho fatto. Ed erano serene.

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