domenica 23 settembre 2012

C come... (pars destruens)

C come cozza sullo scoglio: la definizione è stata coniata da un’amica, neo mamma anche lei; ma siccome rende perfettamente l’idea, le sono ampiamente debitrice. E’ una sensazione, un dato di fatto che sperimenti appena rientri dall’ospedale e rimani sola con la belva seppure sin da subito capisci che non sarai più padrona di niente: del tuo tempo, del tuo corpo (ma questo già durante la gravidanza) né, in sintesi della tua vita. Tutto viene risucchiato da quell’esserino che - per quanto minuscolo - ti ha nelle sue mani, proprio come tu riesci a stringerlo per intero nella tua, di mano. Insomma: se finora abbiamo fatto tanta bella poesia, è venuto il momento di parlare schiettamente. Essere mamma è un’esperienza meravigliosa, bellissima ma soprattutto travolgente, della cui realtà ti rendi conto poco per volta (per la serie: guardi dentro il lettino chiedendoti «Ma questo/a da dove arriva?»). E il tragico è che invece devi essere ben presente e lucida, in modo da ricordarti che devi nutrire, lavare, cambiare e vestire quel fagottino che dipende in tutto e per tutto da te. Se ci pensi è finita: prenoti il primo volo per le Mauritius e chi si è visto si è visto. Ulteriore elemento tragico è che questa graniticità ti viene chiesta non tanto dalla belva quanto dagli altri: hai partorito? Un attimo dopo devi sapere come e quando allattare, come e quanto pesantemente vestirlo/a, come farlo addormentare…e tutto questo quando ancora devi renderti conto che eri proprio tu quella che cinque minuti prima, un giorno prima, una settimana fa, un mese o due fa era in salo parto e che quell’esserino vicino a te è tuo, anzi: che tu sei sua. Per sempre. E, soprattutto adesso, per ogni istante. La definizione “cozza sullo scoglio” calza quindi a pennello: si dà per scontato che lo scoglio sia forte, imperturbabile alle mareggiate, ancorato al fondale con imperitura sicurezza. Dal canto suo la cozza è qualcosa di buono e succoso ma, a volte, fastidioso, capace – nella sua infinita piccolezza rispetto allo scoglio – di modificarne l’aspetto e il modo di fronteggiare le onde: è lo scoglio che deve farsi colpire per primo e levigare dall’acqua ma, questo, lo deve capire. Così come deve capire che, ora più che mai, non sarà più lui (in questo caso lei) ad attirare gli sguardi dei pescatori.
 

C come casa (di Sofia). E’ innegabile: tra le tante trasformazioni e stravolgimenti che comporta l’arrivo di un pargolo c’è quello della casa. A parte i lavori cui abbiamo messo mano negli ultimi mesi del suo viaggio, da quando la Princi è arrivata il nostro appartamento ha subito un restyling che neppure gli architetti e designer di “Cambio casa”: soprattutto, non sarebbero in grado di mutarlo e rivoltarlo con tanta velocità. Se prescindiamo dal fatto che già i felini ci hanno  costretto a costanti traslochi di lettiere, giochini e palestrina, ora basta l’arrivo di un nuovo gioco per imporre un riassetto del salotto, la stanza cioè più vissuta delle altre. E non solo dalla Princi, ma pure da noi, da eventuali ospiti e dai suddetti felini: per cui, al termine delle quotidiane sessioni di aspirapolveraggio, devo ricordarmi come incastrare o trovare un nuovo assett per seggiolone, box, tavolino, tavolo, sedie (ormai dimezzate a tre), palestrina e cuccetta.
Come “Alice nel Paese delle Meraviglie”, il soggiorno sembra dilatarsi e restringersi di continuo. Poi, ogni tanto, ci pensano nonne o parenti vari che, per il perfetto sviluppo cognitivo-motorio-comportamentale della Princi, propongono nuovi attrezzi. Si passa così dal «Vi prenderemo un bel tappetone per farla gattonare e rotolarsi» alla proposta di acquisizione di un girello che è stata fatta a Lui scatenando le mie ire: sia perché fino a cinque minuti prima eravamo concordemente contrari al suo utilizzo sia perché il nostro appartamento non è affatto simile a casa Forrester. «Così c’è un’altra cosa da spostare… Pulisci tu poi?». Momento di riflessione necessario per confezionare una riposta a effetto: «Ma questa non è più casa nostra: è casa di Sofia!». «E allora quando Sofia sarà in grado di pulire potremo anche prenderle il girello!».
 
C come contorsionismi: dovrei proprio decidermi e prendere appuntamento per un bel massaggio alla schiena, massacrata dalle passeggiate pomeridiane per addormentare un fagottino di ormai 8 chili, ampiamente sgusciante e motile, abbarbicato su spalla, fianco e pancia tanto da farmi assumere la forma a S tipica delle Madonne con il bambino di Giovanni Pisano. A questo ultimamente si è aggiunto il pappa-time che non si può semplicemente etichettare come momento dato che trascorre anche un’ora (o più) dall’ingresso del primo cucchiaino nell’hangar al completo dissolvimento della sbobba nella scodellina. La fatica di questa impresa non consiste solo nel convincere la Princi che quell’ammasso fosforescente (alias zuppa di carote o zucca) o indicibilmente denso (per l’aggiunta delle mitiche farine: di riso, mais e tapioca, cereali) sia commestibile, soprattutto perché preparato con tanto amore dalla mamma (ma lo stesso potrebbe dire, anche oggi, la mamma-nonna con me); il problema è che, anche quando mangia, la Princi deve tenere sotto controllo tutto e tutti. I radar del JFK non hanno un raggio d’azione analogo al suo: ogni minimo movimento di persona o cosa deve essere registrato e inserito nella RAM. Come le bambole, ruota la testa a 360° per agevolare lo sguardo che, nel contempo, spazia a 180° sull’asse nord-sud del seggiolone.
Il difficile, quindi, non è tanto farla uscire con una quota accettabile di macchie da una sessione di pappa ma è imboccarla, roba che forse sarebbe necessaria l’imbragatura di Tom Cruise in “Mission impossible” per avere successo. Il picco massimo di contorsionismi l’abbiamo sfiorato in vacanza dove, alle acrobazie circensi si sono sommate ore di note degne di un MP3. Canzoni più o meno stonate si sono alternate ad assoli di forchette e coltelli che Lui usava come nacchere per costringere la Princi ad alzare la testa quel tanto che bastava per farmi rapidamente rovesciare nella sua bocca spalancata un cucchiaio di minestra. Il trucco però aveva la durata di due imboccate dopo le quali si richiedeva un nuovo stratagemma. E lì è stata lei a lasciarci a bocca aperta preferendo al morbido, colorato e piccolo cucchiaio da svezzamento l’anonimo, freddo e metallico cucchiaio in uso nell’albergo: problema di dimensioni? Chissà: ma intanto anche questo espediente è durato il tempo di una pappa.
 
C come corpo dato in affitto: vedersi mamma non è solo questione di riconoscerti nel riflesso di quella persona che sta spingendo il passeggino e ti osserva con sguardo critico per la sciatteria che dimostri nel non essere riuscita ad abbinare scarpe e borsa e per la tamarraggine di calzare gli occhiali da sole nonostante la pioggia battente (ma le occhiaie battono di più). Vedersi mamma è riuscire a capire e, soprattutto, ad accettare che il tuo corpo non è più tuo: un dato di fatto che, necessariamente, ha delle ripercussioni anche sulla vita di coppia. Non è bastato gonfiarsi come un palloncino per nove mesi, con gambe come zampogne e fiato corto al secondo scalino; non è solo il ritrovarsi con una quarta dove un tempo governava la prima. Il punto è che quella quarta non è tua: per quante volte al giorno tu sia costretta a curarla e tenerla sotto controllo, di quella balconata sei solo l’affittuario. La belva ne è il legittimo proprietario ma, anche se non allatti, la situazione non cambia. La sensazione che ho costantemente avuto e continuo ad avere è quella di non riconoscere più il mio corpo come mio: è cambiato, inevitabilmente, e anche se rientro abbondantemente nei vestiti di prima – con mia grande soddisfazione – è come se ciò che vedo e tocco non mi appartenesse più. E non è solo perché effettivamente ci sono state delle trasformazioni; credo sia per l’inconscia consapevolezza che il mio corpo è stato “l’albergo” e poi la “conditio sine qua non” per l’arrivo e la sopravvivenza della Princi anche fuori dalla navicella: il mio corpo ha avuto un uso, una sua utilità che ora si è esaurita, con un po’ di sollievo e rammarico perché almeno negli ultimi mesi è servito a qualcosa. Non so se sia riuscita a spiegarmi: è una sensazione difficilmente trasmissibile a parole ma, assicuro, molto intensa.

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