Al solito, dovrei fare altro: ma
sono rimasta indietro di un troppo che urge in modo prepotente e che, in parte,
è il motivo per cui ho tempo di scrivere.Oggi è infatti il secondo giorno in cui la Princi
resta a scuola anche al pomeriggio. Bella roba,
potrebbe dire qualcuno:la lasci di più proprio alla fine dell’anno. Il punto è proprio
il lasciarla: cosa che se non avessi così
tanta voglia di scrivere e se Briciolina non si fosse appena addormentata,
correrei a prenderla. Ci pensavo già da tempo, all’eventualità
di farle sperimentare pure il pomeriggio: ma dopo i mesi di malattia quasi
ininterrotta, la ripresa è stata piuttosto difficoltosa e forse ne abbiamo degli
strascichi nei frequenti risvegli
notturni con finale salto nel lettone che ancora si stanno verificando ( e
che ormai avvallo tacitamente per poter dormire almeno un po’).
I guardiani della cameretta |
Poi però
qualche settimana fa è comparso sulla vetrata d’ingresso l’annuncio di un
laboratorio sul riciclo effettuato in tre pomeriggi: e allora l’idea ha preso
più corpo, sostenuta anche dalla maestra S. secondo cui lasciandola in giornate
normali c’era il rischio che si addormentasse visto che spesso, tornata a casa,
se ne va da sola in cameretta per due ore di catalessi. Lo sciopero di ieri ha
fatto anticipare il laboratorio di un giorno, a sorpresa: e così lunedì mattina
mi sono trovata a decidere su due piedi, anche se a favore del tempo prolungato
giocavano gli impegni che avevo e chi mi avrebbero costretta a delle corse per
recuperarla senza mandare in crisi la mamma-nonna. Ed eccomi nell’atrio dell’asilo con lei davanti che se ne frega
altamente di cosa le sto dicendo mentre io continuo a rassicurarla: «Amore,
oggi farete un’opera d’arte, ma di pomeriggio, quindi la mamma viene a prenderti
più tardi, va bene? Ok? E quando vengo sarà ora di merenda, non vengo subito
dopo pranzo come sempre … vengo all’ora di merenda e magari andiamo a prendere il gelato.» Parola magica che risveglia
la sua attenzione: subito inizia a richiamare bidella e compagni urlando «Dopo
vado a prendere il gelato!!». E io che
quasi quasi stavo per mettermi a piangere. Come starei per fare ora. Perchè
mi sento una mamma degenere, come l’avessi abbandonata in mezzo alla strada anziché
in un posto dove – tra l’altro – si diverte e si è divertita pure nel tempo
prolungato. Perché sta crescendo troppo rapidamente, e non so se sono
pronta.
La prossima volta che mi chinerò ad allacciarle
le scarpe, alzandomi mi renderò conto che ha diciotto anni. E quella volta dirà
seriamente di non sopportarmi come ha iniziato a fare quando è stizzita perché la
rimprovero o perché è troppo stanca per addormentarsi. E chissà cosa dirà a
quel tempo del mio modo di vestire (che chissà come sarà) visto che già ora mi
critica se non metto la gonna o una maglia bella come la sua: che ad averne, di
maglie belle come le sue, le metterei pure. È che ora comincio a non servirle più: e se finchè sei indispensabile non vedi l’ora che raggiungano
l’autonomia, poi quando riescono a fare da soli, e te lo dicono pure, ci rimani
male. E allora adesso, fra i mille momenti di corsa e i doveri della giornata, mi regalo ogni tanto qualche secondo per
indugiare nei suoi occhioni, per cercare invano di fissare quello sguardo nella
memoria dato perché spesso mi accorgo di aver dimenticato le sue espressioni di
bimba più piccola.
Crescere: sta crescendo lei, stiamo crescendo noi come genitori e stiamo
invecchiando come persone. Non sono pronta a tutto questo, ma temo non ci sia
soluzione. La vita è una malattia da cui si guarisce solo con la morte, diceva
Italo Svevo: e purtroppo è così.
Crescere: fare i conti di quanti
anni sono passati da quando frequentavi l’università, da quando hai
conosciuto quella ragazza con una
foresta di capelli mossi e scuri che, come te, si schiacciava fra il
finestrino, uno schienale e la folla di vecchietti bestemmianti sul numero
trenta per andare a lezione di Letteratura Italiana. Una vita fa, anzi,
parecchie vite fa: perché nel frattempo sei diventata una laureata, una
lavoratrice precaria con molteplici contratti e mansioni, una moglie, una
dottoranda, una dottoressa di ricerca disoccupata che si è inventata il
mestiere di mamma. E che quando ha scoperto di stare per diventarlo, ha
ritrovato quell’amica. E finalmente, dopo tre anni di «Dai, dobbiamo vederci»,
l’ha rivista davvero; e A., invece che riconoscere me, ha riconosciuto la Princi senza
averla mai incontrata prima.
Crescere: fare i conti con i propri errori. Colossali, a volte. Pesantissimi anche quando compiuti per
leggerezza e senza accorgersene. Poi succede qualcosa: succede magari che
qualcuno cresce prima di te e ti viene incontro perché tu sei schiacciato dalla
paura. Paura di un rifiuto, che sarebbe troppo difficile sopportare perché la
voglia di rivedersi e di riavvolgere il nastro sarebbe talmente tanta che ogni
poco ritrovi quella persona nei sogni. A questi tre anni di mammitudine è
sempre mancato qualcosa, era come se questa entusiasmante, terrificante
esperienza non fosse completa. E così ora, una settimana fa, ho scoperto come
sarebbe stata e sarebbe dovuta essere: distanza chilometrica permettendo, ci
saremmo ritrovate più volte sedute sul divano a parlare di cuccioli, di Lui, di
noi. Come sarebbe stato rivedersi? Ci ho pensato lungo tutta la strada: cosa
avrei detto? Ne avremmo parlato o sarebbe stato meglio far finta di niente? Non
c’è stato bisogno di pensarci, solo di superare l’attimo di incredulità per
riconoscere in quei quattro genitori gli amici di prima, quelli di sempre, come
se la birra appoggiata anni prima fosse la stessa che stavamo sorseggiando ora.
E come se in quell’abbraccio silenzioso,
lungo, avvolto da lacrime reciprocamente non viste, ci fosse tutto il non detto
di questo tempo.
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