mercoledì 6 maggio 2015

crescere

Uno degli ultimi disegni della Princi: la famiglia di Mulan

Al solito, dovrei fare altro: ma sono rimasta indietro di un troppo che urge in modo prepotente e che, in parte, è il motivo per cui ho tempo di scrivere.Oggi è infatti il secondo giorno in cui la Princi resta a scuola anche al pomeriggio. Bella roba, potrebbe dire qualcuno:la lasci di più proprio alla fine dell’anno. Il punto è proprio il lasciarla: cosa che se non avessi così tanta voglia di scrivere e se Briciolina non si fosse appena addormentata, correrei a prenderla. Ci pensavo già da tempo, all’eventualità di farle sperimentare pure il pomeriggio: ma dopo i mesi di malattia quasi ininterrotta, la ripresa è stata piuttosto difficoltosa e forse ne abbiamo degli strascichi nei frequenti risvegli notturni con finale salto nel lettone che ancora si stanno verificando ( e che ormai avvallo tacitamente per poter dormire almeno un po’). 
I guardiani della cameretta 
Poi però qualche settimana fa è comparso sulla vetrata d’ingresso l’annuncio di un laboratorio sul riciclo effettuato in tre pomeriggi: e allora l’idea ha preso più corpo, sostenuta anche dalla maestra S. secondo cui lasciandola in giornate normali c’era il rischio che si addormentasse visto che spesso, tornata a casa, se ne va da sola in cameretta per due ore di catalessi. Lo sciopero di ieri ha fatto anticipare il laboratorio di un giorno, a sorpresa: e così lunedì mattina mi sono trovata a decidere su due piedi, anche se a favore del tempo prolungato giocavano gli impegni che avevo e chi mi avrebbero costretta a delle corse per recuperarla senza mandare in crisi la mamma-nonna. Ed eccomi nell’atrio dell’asilo con lei davanti che se ne frega altamente di cosa le sto dicendo mentre io continuo a rassicurarla: «Amore, oggi farete un’opera d’arte, ma di pomeriggio, quindi la mamma viene a prenderti più tardi, va bene? Ok? E quando vengo sarà ora di merenda, non vengo subito dopo pranzo come sempre … vengo all’ora di merenda e magari andiamo a prendere il gelato.» Parola magica che risveglia la sua attenzione: subito inizia a richiamare bidella e compagni urlando «Dopo vado a prendere il gelato!!». E io che quasi quasi stavo per mettermi a piangere. Come starei per fare ora. Perchè mi sento una mamma degenere, come l’avessi abbandonata in mezzo alla strada anziché in un posto dove – tra l’altro – si diverte e si è divertita pure nel tempo prolungato. Perché sta crescendo troppo rapidamente, e non so se sono pronta.
La prossima volta che mi chinerò ad allacciarle le scarpe, alzandomi mi renderò conto che ha diciotto anni. E quella volta dirà seriamente di non sopportarmi come ha iniziato a fare quando è stizzita perché la rimprovero o perché è troppo stanca per addormentarsi. E chissà cosa dirà a quel tempo del mio modo di vestire (che chissà come sarà) visto che già ora mi critica se non metto la gonna o una maglia bella come la sua: che ad averne, di maglie belle come le sue, le metterei pure. È che ora comincio a non servirle più: e se finchè sei indispensabile non vedi l’ora che raggiungano l’autonomia, poi quando riescono a fare da soli, e te lo dicono pure, ci rimani male. E allora adesso, fra i mille momenti di corsa e i doveri della giornata, mi regalo ogni tanto qualche secondo per indugiare nei suoi occhioni, per cercare invano di fissare quello sguardo nella memoria dato perché spesso mi accorgo di aver dimenticato le sue espressioni di bimba più piccola.
Crescere: sta crescendo lei, stiamo crescendo noi come genitori e stiamo invecchiando come persone. Non sono pronta a tutto questo, ma temo non ci sia soluzione. La vita è una malattia da cui si guarisce solo con la morte, diceva Italo Svevo: e purtroppo è così.

Crescere: fare i conti di quanti anni sono passati da quando frequentavi l’università, da quando hai conosciuto quella ragazza con una foresta di capelli mossi e scuri che, come te, si schiacciava fra il finestrino, uno schienale e la folla di vecchietti bestemmianti sul numero trenta per andare a lezione di Letteratura Italiana. Una vita fa, anzi, parecchie vite fa: perché nel frattempo sei diventata una laureata, una lavoratrice precaria con molteplici contratti e mansioni, una moglie, una dottoranda, una dottoressa di ricerca disoccupata che si è inventata il mestiere di mamma. E che quando ha scoperto di stare per diventarlo, ha ritrovato quell’amica. E finalmente, dopo tre anni di «Dai, dobbiamo vederci», l’ha rivista davvero; e A., invece che riconoscere me, ha riconosciuto la Princi senza averla mai incontrata prima.

Crescere: fare i conti con i propri errori. Colossali, a volte. Pesantissimi anche quando compiuti per leggerezza e senza accorgersene. Poi succede qualcosa: succede magari che qualcuno cresce prima di te e ti viene incontro perché tu sei schiacciato dalla paura. Paura di un rifiuto, che sarebbe troppo difficile sopportare perché la voglia di rivedersi e di riavvolgere il nastro sarebbe talmente tanta che ogni poco ritrovi quella persona nei sogni. A questi tre anni di mammitudine è sempre mancato qualcosa, era come se questa entusiasmante, terrificante esperienza non fosse completa. E così ora, una settimana fa, ho scoperto come sarebbe stata e sarebbe dovuta essere: distanza chilometrica permettendo, ci saremmo ritrovate più volte sedute sul divano a parlare di cuccioli, di Lui, di noi. Come sarebbe stato rivedersi? Ci ho pensato lungo tutta la strada: cosa avrei detto? Ne avremmo parlato o sarebbe stato meglio far finta di niente? Non c’è stato bisogno di pensarci, solo di superare l’attimo di incredulità per riconoscere in quei quattro genitori gli amici di prima, quelli di sempre, come se la birra appoggiata anni prima fosse la stessa che stavamo sorseggiando ora. E come se in quell’abbraccio silenzioso, lungo, avvolto da lacrime reciprocamente non viste, ci fosse tutto il non detto di questo tempo. 

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