Oggi di studiare non ho proprio voglia. Sarà che da diverse
notti la Princi non ci fa dormire: che sia colpa di nuovi denti o ancora del
vaccino a una settimana di distanza non lo potremo mai sapere.
Sappiamo però che se anche la mettiamo
fiduciosi nel suo lettino dopo qualche ora dovremo spostarci ai margini del
lettone per far spazio a lei, ai suoi calci addosso a noi, alle sue
capocciate contro la testiera del letto (di legno), a tutta lei perché si mette
in orizzontale giusto al livello dei cuscini. E poi dobbiamo fare spazio al sig.
Degas, a Mr. Billy, convalescente dopo una lotta fra felini in cui (crediamo)
ha avuto la peggio, a Gimpo, Gimpo grande o a entrambi (i pupazzi preferiti della
Princi). Dobbiamo a questo punto ritenerci fortunati se, come accadeva in una
pubblicità di qualche anno fa, non ci ritroviamo a letto con Fufi.
Sarà
che sono contenta perché finalmente c’è il
sole e se anche devo lavorare mezza giornata l’altra metà l’ho passata finalmente con Lui e la Princi facendo, per parafrasare
Guido Gozzano, quelle piccole cose di grande gusto come vederla seduta dentro
la doccia nella sua nuova vaschetta insieme a Pippo, Topolino, Pingu e lo
squalo; vederla ballare secondo le note di una musica tutta interiore mentre si
lascia scarrozzare sul suo triciclo con indosso gli occhiali da sole; lasciarmi
trascinare ai margini della commemorazione del 25 aprile per dimenarsi al ritmo
di “Bella ciao” (e qui si potrebbero fare commenti di destra e di sinistra);
bere un aperitivo con lei in braccio.
Sarà
che sono contenta perché sto contando le ore che mancano all’uscita con gli
amici,
faticosamente organizzata e che mi mancava un sacco: perché mi mancano loro e
le loro vite, mi manca uscire assieme e sparare qualche cavolata, mi manca
cenare con loro, un aperitivo con loro. A dire il vero, mi mancano gli aperitivi con Lui, con Lui e la
Princi, con gli amici, con gli amici e la Princi… se dovessi rifarmi di tutti quelli che mi mancano si aprirebbero per me
le porte della riabilitazione.
Sarà
che ho appena letto un articolo che mi ha colpita e che ho effettivamente invidiato
per il modo lucido, incisivo e sincero con cui sono scritte cose per le quali
sono stata giudicata all’inizio del mio blog: e non le avevo neppure scritte
con la stessa acutezza e precisione. Leggere quell’articolo mi ha fatto pensare
a qualcosa su cui, in realtà, rifletto quotidianamente.
Perché ogni giorno confronto
la vita a. P. (ante Princi) con quella d. P. (dopo Princi), sia la mia
personale sia quella di coppia. Perché ogni giorno cerco di ricordare come mi
sentivo da figlia se mia mamma si comportava con me come io mi comporto con
lei. Perchè ogni giorno mi chiedo quali sono le immagini e i ricordi che vorrei
lei avesse di me una volta cresciuta. Perché ogni giorno, prima di fare
qualsiasi cosa, metto sulla bilancia lei e me: la porto in ludoteca o andiamo in
città per vedere le amiche? le preparo qualcosa di buono per cena o le leggo un
libro? la porto in piscina o vado ad
aerobica? vedo dove vuole portarmi ora che mi ha preso per mano o vado a fare
pipì?
Forse avevo cercato di
rimuoverlo ma mi è tornato in mente qualche settimana fa, parlando con Lui. Quando la Princi è nata,
nell’atmosfera sospesa e paradossale dei giorni in ospedale, quando da un alto
non vedi l’ora di tornare a casa e dall’altro temi alla follia quel momento, la gioia di conoscerla si è mescolata all’incredulità.
Incredulità
di averla accanto e pensare fosse “mia”: la bambina di una bambina, non anagraficamente
parlando, è ovvio. E così, lo scrivo con le
lacrime agli occhi, c’è voluto un giorno e mezzo perché trovassi
il coraggio di chiamarla. Di chiamarla Princi ma soprattutto “amore”,
o “cucciolo”. Di riuscire a tranquillizzarla rivolgendomi a lei più
direttamente e teneramente che con un asettico “SSh!”. Di riuscire a cantarle l’unica
canzoncina che ricordo per intero della mia infanzia.
Ero totalmente
stranita. E lo
ero ancor più a vedere la tranquillità di Lui, che se la stringeva addosso come
fosse una bambola e io invece avevo paura di quella minuscola appendice che
chiedeva e non sapevo cosa.
Ancora
adesso a volte ho paura di lei. Anzi: di me. Di non sapere giocare e stare con lei. Di privilegiare
la sua cura materiale (vestirla, lavarla, nutrirla) piuttosto che il suo
divertimento.
Poi la
guardo con gli occhi di Lui, che mi ripete quante cose le stia insegnando e come mi sia
attaccata.
E allora
rido.
Perché seduta sul fasciatoio mi indica il piumino della cipria
per passarselo sulle gote arrossate o muove il ditino davanti alle labbra per
dirmi di darle il burro cacao.
Perché almeno una volta al giorno si ferma davanti alla libreria
dell’ingresso e, seria seria, inizia a estrarre uno alla volta i cataloghi dei
nostri amici pittori e l’opuscolo della Risiera portandomeli perché glieli spieghi.
Perché quando entra in bagno manovra il pomolo della lavatrice e
sa con precisione dov’è la vaschetta per il detersivo e, in cucina, chiude il
cassettino del sapone e si dirige sicura sotto il lavello quando deve buttare
qualche cartaccia recuperata chissà dove.
Perché quando vede la Nonna-Bisnonna con la lima in mano inizia
a strusciarsi l’uno contro l’altro gli indici.
Perché quando gli chiediamo se fuori è freddo stringe i pugni e
finge di tremare, mentre se ho in mano la tazza bollente avvicina la manina
scostandola subito e portandola al viso per non scottarsi.
Perché quando l’altra sera Lui ha steso i panni lei li tirava
fuori dalla bacinella e li scuoteva.
Perché quando gli si chiede come fa lo zio
E. lei prorompe in un «Boh!» assai simile ai suoi.
Perché l’altro giorno mi
sono accorta che eravamo vestite allo stesso modo.
Perché venerdì, attenta al tg, ha esultato vedendo Papa Francesco iniziando a blaterare «Papa, Papa!».
Perché ci sta facendo conoscere il suo carattere testardo e
smorfiosetto, finto timido e dolcissimo.
E se anche ogni giorno è uguale, in realtà ogni giorno è
diverso: lei cerca quotidianamente di spiegarcelo, in quella lingua arabo-tedesca-principesca-felina
che per ora e per sempre rimarrà un mistero.
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