Un anno fa, come oggi, avevamo
fatto il penultimo monitoraggio, quello in cui Lui –aspettando che la Princi si
degnasse di dare qualche cenno – aveva chiesto all’ostetrica E. se potesse
potuto assistere al parto con una visione diretta in alta risoluzione.
Un anno fa, come oggi, siamo
poi andati a casa dei futuri nonni per festeggiare il compleanno della
bisnonna, tra il timore di dover annunciare a tutti che non ci saremmo potuti essere
perché stavamo volando in ospedale scatenando magari ansie e attese inopinate
dato che volevamo fare tutto in sordina e dare la notizia ad allunaggio
avvenuto. Ed è stato poi in quell’occasione, occasione di cui – al solito –
avrei volentieri fatto a meno, che qualcuno ha scoperto che la mamma della futura nipotina sarei stata io,
chiedendomi per la prima volta come mi sentissi e se avessi qualche sintomo.
Oggi invece stiamo per andare a
saccheggiare il supermercato in vista del primo
ComplePrinci. Oggi, invece,
abbiamo una sveglia che tutte le mattine anziché suonare gorgheggia (nella
migliore delle ipotesi).
Oggi invece, ai nostri mal di
schiena risponde una piccola massaggiatrice che con i suoi piedini percorre i nostri
corpi che cercano inutilmente di placcarla (sì, con due “c”) nel lettone.
Oggi abbiamo un faccino rotondo che sorride ogni volta che impara
qualcosa e ci fa ridere per la sua nuova conquista: stringe i pugni e agita le
braccine per dire “che freddo!”, finge di scottarsi toccando la stufa, comincia
a mangiare da sola con risultati davvero soddisfacenti, si spazzola i denti e
li spazzola anche a Mr. Billy, sta imparando a spazzolarsi gli ancora pochi
capelli, tenta di imitare lo schiocco delle dita quando le accenno la sigla
della famiglia Addams, musica che allestisco quando la vesto e vado alla ricerca
della sua manina rimasta incastrata nella maglia.
Sarà una banalità, ma a vedere le foto di alcuni mesi fa è incredibile
quanto rapidamente si sia trasformata da quella ranocchietta che era in una
personcina con il suo bel caratterino. Finalmente?
Mi rendo conto ogni giorno che per qualsiasi azione che si compie da soli mi
chiedo quando finalmente la farà in autonomia per poi ritrovarmi a pensare, con
una punta di nostalgia e senso di incipiente inutilità: «Oddio, questo fino a
ieri lo facevo io per lei».
Ieri è stata una giornata un po’ così. Siamo rimaste prigioniere
delle mura di casa non avendo l’auto (causa tagliando) ed essendoci un tempo
schifosetto con pioggerellina che, se fossimo uscite, si sarebbe tramutata in acquazzone.
Però è stata una giornata che mi è
servita. Mi è servita a stare con lei senza fretta, senza doversi sbrigare perché
qualcuno ci aspetta, facendo sempre e solo conto su di me e con la mia paura,
che a volte ritorna «Che caspita faccio ora con lei?!».
Ammetto che molta parte della giornata è andata nel riassetto della
casa ma con la sua collaborazione, felice e fattiva. Preparavo il pranzo e lei inventariava
più e più volte il contenuto del cassetto; svuotavo la lavastoviglie e lei si
immergeva nell’acqua rimasta sul fondo; passavo l’aspirapolvere e lei mi
indicava dove; spolveravo e lei mi accendeva la luce per farmi vedere meglio. Abbiamo
pranzato insieme; dormito insieme in una stanza che sembrava un dormitorio,
dato che vicino a me c’erano pure i due felini; ballato insieme; letto il suo
nuovo libro con i versi degli animali.
E
poi ha camminato. Sì, per la prima vera volta.
Anche se tre passetti erano spuntati già il 26 dicembre a casa
della mamma-nonna e si sono ripetuti sabato sera per riuscire a raggiungere il
Sig. Degas fra le mie braccia, ieri la Princi ha veramente camminato da sola. Questa
volta, intendo dire, si è accorta di
cosa stesse succedendo. Poi, ovviamente, questa volta è più valida perché stava venendo da me, con uno
sguardo fra allibito (per la serie: «Cosa cavolo sta succedendo, mamma?») e
spaventato. Infatti purtroppo la performance non ha avuto un grosso seguito
nonostante le mie acclamazioni di bravura: perché faticare tanto se posso
andare da A a B strisciando nel mio solito modo da swiffer?
Poi, qualche ora dopo questa emozione, la batosta: perché, come ha postato qualcuno pochi giorni fa su fb
trovando la mia immediata comprensione, una
giornata non può essere bella e punto. No, la batosta arriva sempre. E anche
se in qualche modo già ci pensavo, sapere mi ha dato un bel colpo. Pensare non
più a “un anno fa, a quest’ora” ma a “tra un mese/due mesi/sei mesi/un anno, a
quest’ora”. Pensare che la storia si
possa ripetere ancora e ancora e ancora; e sentirsi vuota, arrabbiata perché va
sempre tutto così. Perché pensi alle statistiche sull’incidenza delle
malattie e con il sorriso sulle labbra ti dicono uno su un milione; ma quel
milione forse ha lasciato fuori la tua famiglia. Perché pensi che sì, è vero,
la vita avrebbe comunque fatto il suo corso: ma questa non è la vita, è la
malattia. E allora, inutilmente, ti
incazzi. Pensi che vorresti buttare giù a sprangate le porte, spaccare
tutti i piatti e bicchieri di casa e ti accorgi che in verità lo faresti non
tanto e non solo perché è quella persona ma perché è comunque, ancora, una
persona vicina. Perché si tratterà di rivivere un copione già vissuto tante
volte. Scende una lacrima, una seconda; stai per iniziare a singhiozzare quando
la voce di Romina Power che canta il “Ballo del qua qua” ti riporta a oggi, a
quella pallina che finge di non essersi accorta della tua tristezza salvo poi
spalmartisi addosso e stringerti a sé.
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