giovedì 15 novembre 2012

crisi che va, crisi che viene


Oggi avrei voluto scrivere della crisi e non certo di quella economico – politico – sociale di cui sono quotidianamente infarciti i telegiornali: tutti ne hanno le tasche piene e, a dire il vero, non saprei cosa dirne dato che io, il telegiornale, purtroppo (o forse per fortuna) non lo vedo da parecchio. Vuoi perché l’ora di cena è monopolizzata dalla Princi con capricci, pappe e inseguimenti dei gatti sotto il tavolo (dove, ormai, non passa più), vuoi perché da qualche tempo Lui ha deciso che, per rilassarsi, deve sottoporci tutti quanti alla visione di Supernatural: così, se a suon di cadaveri, vampiri e arcangeli omicidi la Princi ha gli incubi notturni sappiamo chi ringraziare.

Avrei voluto parlare della crisi, dunque: quella mia personale che, ciclicamente, si rafforza, mi strema e assieme a me strema anche chi mi sta attorno. E sarà forse per questo che quando avrei voluto dedicare una giornata intera alla Pallina lei ha pensato bene di far esplodere una frigna da paura tanto che - sinceramente – ho ringraziato il pittore che mi ha chiesto con urgenza di vedere le sue opere per poterlo presentare, essendo così costretta a mollare il piccolo piagnisteo alla mamma-nonna per due orette. Però poi la frigna ha ripreso, più intensa che mai.
 

La crisi, dicevo. Avrei voluto scrivere ciò che mi passa nella mente e nel cuore in questi giorni: l’arrabbiatura (con chi poi chissà) perché in queste ultime settimane mi sembra di lavorare troppo; l’insoddisfazione per non aver raggiunto alcun risultato lavorativo pari a quelle aspettative che credevo fossero mie ma che, riflettendo anche con Lui, chissà di chi sono (o erano); il senso di colpa perché in oltre un mese dal momento in cui li ho comprati sono riuscita a leggere solamente trenta pagine dei voluminosi testi per il concorso cui mi sono iscritta; etc. etc. etc.
 
La crisi, appunto. La crisi è passata quando, oggi pomeriggio, è entrata in galleria una coppia di persone che, contrariamente a quanto fa la maggior parte dei visitatori, si è soffermata a lungo in ogni sala. Al momento di uscire si sono fermati per uno scambio di battute sull’arte contemporanea: «Sa, sono un pittore» dice lui da sotto una barba bianca e curata. Stranamente, forse presentendo qualcosa, ho timidamente domandato se fossero della zona e, quando mi hanno detto da dove venissero «Scusi se mi permetto, ma posso chiederle il suo nome?». La risposta è stata quasi ovvia ma al tempo stesso folgorante: in un momento mi son tornati alla memoria i corridoi della struttura di riabilitazione in cui la Rossa andava esclusivamente per partecipare alle sue lezioni di pittura, il corridoio di casa della mamma-nonna dove è appeso il suo ritratto schizzato da una più anziana degente, il ricordo del momento in cui il nonno era andato a cercarlo per chiedergli un’opera da dedicarle quando già se n’era andata. Di colpo, mi sarei messa a piangere: poco professionalmente, dietro al bancone del museo. Di colpo, sarei balzata oltre al bancone per abbracciarlo quando lui mi ha chiesto dei dettagli per cercare di ricordare chi fosse e se n’è subito ricordato, battendo il pugno sul bancone, arrossando e abbassando gli occhi. Ringraziandomi poi, mentre usciva, per avergli ricordato una persona a cui teneva e al cui ricordo tiene.

La crisi, quindi. C’era e c’è ancora: ma adesso è stata temporaneamente sostituita da un forte, indicibile magone.

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