D come dare la vita: è uno dei tanti modi di dire che accompagnano la
nascita, ma è pure una grande verità. Dare la vita non significa solamente
agevolare l’allunaggio dello shuttle: significa piuttosto che la tua vita viene presa, impacchettata e
imperituramente regalata a quell’affarino. Come detto a proposito della
cozza sullo scoglio e della doccia, ogni tuo passo sarà d’ora in poi compiuto a
un numero variabile di gambe a seconda che il cucciolo venga spostato a bordo
di seggiolone, box, che gattoni o cammini. Ogni tua esigenza verrà messa in
secondo piano rispetto alle sue: il suo pannolino da mezzo quintale si cambia
prima che tu faccia la pipì che stai trattenendo da due ore per scorrazzarlo,
la sua fame viene prima della tua anche se lui ha mangiato due ore fa e tu otto,
il suo freddo/caldo viene prima del tuo imminente scioglimento o ibernazione
perché, seguendo l’esempio di San Martino, gli hai donato tutti i tuoi vestiti.
Per ribadirlo in breve, la tua vita non
è più tua ma sua, come tutto: la casa, invasa da fasciatoio, lettino, box,
seggiolone, giochini sparsi con un aggiornamento mensile degli accessori che lo
devono accompagnare nella crescita; l’auto, ridotta da cinque a due posti perché
i restanti servono per ospitare navetta e poi ovetto e poi ancora seggiolino
oltre, naturalmente, al vario corredo di giochi per l’intrattenimento nei
tragitti più o meno lunghi; il cellulare, dove devi avere ben in vista i numeri
di emergenza, del pediatra, della ludoteca, della piscina e di tutti i parenti
cui è affidato il pupo; i siti internet preferiti, che ora vedono in testa le
pagine dedicate a gravidanze, nascite, complementi d’arredo per cuccioli,
ricette per bambini e chi più ne ha più ne metta; lo scaffale con i libri di
cucina, dove troneggiano ormai solo ricettari per svezzamento; … E, non ultima,
la tua testa: dove risuonano le urla
inspiegabili con cui si è svegliato alle due di notte, sconfitte però dalla
costante immagine del suo sorriso non appena ti vede.
D come dica: so di aver già accennato a questo strano fenomeno
ma in sede di alfa-Princi è bene ribadirlo. Quando la Princi aveva più o meno
due mesi, stremata da un suo continuo, sottile e penetrante lamento
(ovviamente: mentre stavo facendo la doccia) non so per quale strano caso e per
quale balzana, distorta e forse diseducativa idea ho provato a intonare quella
canzoncina. Già, proprio la sigla del programma che Lui, ogni sera, mi
costringeva a vedere e di cui sopportavo solo la parte finale: proprio quella
in cui “Dica?” veniva ripetuto fino all’ossessione. Non l’avessi mai fatto e,
se me l’avessero raccontato, non ci avrei mai creduto: il piagnisteo si è
bloccato e al suo posto han cominciato a manifestarsi smorfie divertite. Da
allora la sigla de “I soliti idioti” è diventata il nostro asso nella manica
per i momenti di crisi, ma non solo: si è trasformata nel mio cavallo di
battaglia sottoposto a continue revisioni e aggiornamenti. Ho infatti coniato
delle varianti in cui si rispecchia tutta la famiglia: e la Princi le apprezza
al pari dell’originale. Interrogandoci dal punto di vista
sociologico-evolutivo-pediatrico su questa malsana predilizione siamo pervenuti
a una conclusione: la preferenza della Princi per questa musichetta è dovuta al
fatto che Lui, nelle due settimane di congedo per paternità seguite
all’allunaggio, la cullava in piedi proprio davanti alla tv che trasmetteva “I
soliti idioti”.
D come De Gregori: fortunatamente a riportare la Princi a gusti
musicali più elevati ci ha pensato la mamma che le ha fatto conoscere De
Gregori già quando era nel pancione. Anche in questo caso, in realtà, si è
trattato di qualcosa di inatteso. Rientrando da Trieste, la Princi (ancora ben
chiusa nella sua navicella madre) ha pensato di anticipare l’ora dell’aerobica
a cui solitamente si dedicava la sera, dopo cena, appena mi schiaffavo sul
divano. Per farmi compagnia e per dar sfogo a un insolito buonumore, ho
iniziato a cantare “La donna cannone” seguendo la musica del cd di sottofondo. Stop.
Improvvisamente Jane Fonda ha fermato i
suoi piegamenti, d’un tratto Carla Fracci ha ultimato la pirouette in cui si
stava impegnando. Allora il volume dello stereo è cresciuto in maniera
proporzionale ai repeat che ho ascoltato fino a casa. Anzi, che abbiamo
ascoltato: perché è stato in quel momento che mi sono resa definitivamente
conto che c’era qualcuno in viaggio con me. E così, il mio piccolo “Raggio di sole” (canzone che,
ovviamente, le ho subito dedicato) ha riscoperto poi De Gregori qualche
settimana dopo l’allunaggio quando, da sole a casa, ho provato a calmarla facendole
riascoltare quella musica. Lei ha capito e ricordato; e anche ora, quando la
voglio addormentare, le dedico quelle parole piene di tenerezza: «E con le mani amore, con le mani ti
prenderò, e senza dire parole nel mio cuore ti porterò». La stanchezza
della Princi la misuro in base alle strofe o al numero di volte in cui devo
cantare entrambe le canzoni prima di vederla crollare: non so se a De Gregori farebbe
piacere sapere dell’effetto soporifero della sua musica ma, forse, sarebbe
felice di avere una fan così piccola. Eppure, penso ogni tanto mentre canto passeggiando
nella penombra con lei accasciata sulla spalla modello koala, il merito di tutto questo va ai
miei zii: è grazie a loro, infatti, che conosco queste poesie. E, anche io, le
ho conosciute da bambina.
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