domenica 14 ottobre 2012

D come (parte seconda)

 
D come dare la vita: è uno dei tanti modi di dire che accompagnano la nascita, ma è pure una grande verità. Dare la vita non significa solamente agevolare l’allunaggio dello shuttle: significa piuttosto che la tua vita viene presa, impacchettata e imperituramente regalata a quell’affarino. Come detto a proposito della cozza sullo scoglio e della doccia, ogni tuo passo sarà d’ora in poi compiuto a un numero variabile di gambe a seconda che il cucciolo venga spostato a bordo di seggiolone, box, che gattoni o cammini. Ogni tua esigenza verrà messa in secondo piano rispetto alle sue: il suo pannolino da mezzo quintale si cambia prima che tu faccia la pipì che stai trattenendo da due ore per scorrazzarlo, la sua fame viene prima della tua anche se lui ha mangiato due ore fa e tu otto, il suo freddo/caldo viene prima del tuo imminente scioglimento o ibernazione perché, seguendo l’esempio di San Martino, gli hai donato tutti i tuoi vestiti. Per ribadirlo in breve, la tua vita non è più tua ma sua, come tutto: la casa, invasa da fasciatoio, lettino, box, seggiolone, giochini sparsi con un aggiornamento mensile degli accessori che lo devono accompagnare nella crescita; l’auto, ridotta da cinque a due posti perché i restanti servono per ospitare navetta e poi ovetto e poi ancora seggiolino oltre, naturalmente, al vario corredo di giochi per l’intrattenimento nei tragitti più o meno lunghi; il cellulare, dove devi avere ben in vista i numeri di emergenza, del pediatra, della ludoteca, della piscina e di tutti i parenti cui è affidato il pupo; i siti internet preferiti, che ora vedono in testa le pagine dedicate a gravidanze, nascite, complementi d’arredo per cuccioli, ricette per bambini e chi più ne ha più ne metta; lo scaffale con i libri di cucina, dove troneggiano ormai solo ricettari per svezzamento; … E, non ultima, la tua testa: dove risuonano le urla inspiegabili con cui si è svegliato alle due di notte, sconfitte però dalla costante immagine del suo sorriso non appena ti vede.
 
 
D come dica: so di aver già accennato a questo strano fenomeno ma in sede di alfa-Princi è bene ribadirlo. Quando la Princi aveva più o meno due mesi, stremata da un suo continuo, sottile e penetrante lamento (ovviamente: mentre stavo facendo la doccia) non so per quale strano caso e per quale balzana, distorta e forse diseducativa idea ho provato a intonare quella canzoncina. Già, proprio la sigla del programma che Lui, ogni sera, mi costringeva a vedere e di cui sopportavo solo la parte finale: proprio quella in cui “Dica?” veniva ripetuto fino all’ossessione. Non l’avessi mai fatto e, se me l’avessero raccontato, non ci avrei mai creduto: il piagnisteo si è bloccato e al suo posto han cominciato a manifestarsi smorfie divertite. Da allora la sigla de “I soliti idioti” è diventata il nostro asso nella manica per i momenti di crisi, ma non solo: si è trasformata nel mio cavallo di battaglia sottoposto a continue revisioni e aggiornamenti. Ho infatti coniato delle varianti in cui si rispecchia tutta la famiglia: e la Princi le apprezza al pari dell’originale. Interrogandoci dal punto di vista sociologico-evolutivo-pediatrico su questa malsana predilizione siamo pervenuti a una conclusione: la preferenza della Princi per questa musichetta è dovuta al fatto che Lui, nelle due settimane di congedo per paternità seguite all’allunaggio, la cullava in piedi proprio davanti alla tv che trasmetteva “I soliti idioti”.
 
D come De Gregori: fortunatamente a riportare la Princi a gusti musicali più elevati ci ha pensato la mamma che le ha fatto conoscere De Gregori già quando era nel pancione. Anche in questo caso, in realtà, si è trattato di qualcosa di inatteso. Rientrando da Trieste, la Princi (ancora ben chiusa nella sua navicella madre) ha pensato di anticipare l’ora dell’aerobica a cui solitamente si dedicava la sera, dopo cena, appena mi schiaffavo sul divano. Per farmi compagnia e per dar sfogo a un insolito buonumore, ho iniziato a cantare “La donna cannone” seguendo la musica del cd di sottofondo. Stop.
Improvvisamente Jane Fonda ha fermato i suoi piegamenti, d’un tratto Carla Fracci ha ultimato la pirouette in cui si stava impegnando. Allora il volume dello stereo è cresciuto in maniera proporzionale ai repeat che ho ascoltato fino a casa. Anzi, che abbiamo ascoltato: perché è stato in quel momento che mi sono resa definitivamente conto che c’era qualcuno in viaggio con me. E così, il mio piccolo “Raggio di sole” (canzone che, ovviamente, le ho subito dedicato) ha riscoperto poi De Gregori qualche settimana dopo l’allunaggio quando, da sole a casa, ho provato a calmarla facendole riascoltare quella musica. Lei ha capito e ricordato; e anche ora, quando la voglio addormentare, le dedico quelle parole piene di tenerezza: «E con le mani amore, con le mani ti prenderò, e senza dire parole nel mio cuore ti porterò». La stanchezza della Princi la misuro in base alle strofe o al numero di volte in cui devo cantare entrambe le canzoni prima di vederla crollare: non so se a De Gregori farebbe piacere sapere dell’effetto soporifero della sua musica ma, forse, sarebbe felice di avere una fan così piccola. Eppure, penso ogni tanto mentre canto passeggiando nella penombra con lei accasciata sulla spalla modello koala, il merito di tutto questo va ai miei zii: è grazie a loro, infatti, che conosco queste poesie. E, anche io, le ho conosciute da bambina.
 

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